Covid 19 e inquinamento atmosferico

L'analisi di dati sulla relazione tra i livelli di inquinamento atmosferico e l’epidemia di COVID-19
del 17/04/20 -

Scienza e Salute – Questo documento è stato redatto dallo Steering Committee del progetto CCM RIAS

1. Dipartimento di Epidemiologia del Servizio Sanitario Regionale del Lazio, ASL Roma, Roma
2. Servizio di sanità pubblica, Direzione generale sanità e politiche sociali, Regione Emilia-Romagna, Bologna
3. Unità di ricerca in epidemiologia ambientale, Istituto di fisiologia clinica, CNR, Pisa
4. Agenzia regionale strategica per la salute e il sociale della Puglia, Bari
5. Dipartimento Igiene e Prevenzione sanitaria, UOC Salute e Ambiente e Progetti Innovativi ATS di Pavia, Pavia
6. Dipartimento di biologia, Università di Pisa, Pisa
7. Inferenze
8. Agenzia regionale per la prevenzione, l’ambiente e l’energia dell’Emilia-Romagna, Bologna
9. Direzione Generale Prevenzione, Ministero della Salute, Roma
10. Istituto per la Ricerca e l’Innovazione Biomedica, CNR, Palermo
11. Dipartimento Ambiente e Salute, Istituto Superiore di Sanità, Roma
12. Epidemiologia dei tumori, Dipartimento di scienze mediche, Università degli Studi di Torino e CPO-Piemonte

In queste ultime settimane, sono stati diffusi online contributi sotto forma pre-print(senza peer-review) che discutono o presentano analisi di dati sulla relazione tra i livelli di inquinamento atmosferico e l’epidemia di COVID-19 (malattia del Coronavirus causata dalla SARS-CoV-2). L’attenzione è posta in particolare sui potenziali effetti del particolato fine (PM), sulla diffusione della epidemia e sulla prognosi delle infezioni respiratorie. L’ipotesi sottostante è che una alta concentrazione di particolato (PM10, PM2.5) renda il sistema respiratorio più suscettibile alla infezione e alle complicanze della malattia da coronavirus. Piu è alta e costante nel tempo (come per gli anziani) l’esposizione a PM più è alta la probabilità che il sistema respiratorio sia predisposto ad una malattia più grave. D’altra parte, è noto che l’inquinamento atmosferico, subito dopo dieta, fumo, ipertensione e diabete è uno dei fattori di rischio più importanti per la salute e causa ogni anno 2.9 milioni di morti premature in tutto il mondo (https://www.stateofglobalair.org/report). Cardiopatia ischemica, ictus, malattia polmonare ostruttiva cronica, sono le principali condizioni associate alla mortalità correlata all’inquinamento atmosferico. La possibile interazione tra inquinamento e COVID-19 è anche suggerita dal fatto che l’esposizione all’inquinamento atmosferico aumenta il rischio di patologie respiratorie e infezioni acute delle basse vie respiratorie (ALRI) particolarmente in soggetti vulnerabili, quali anziani e bambini. Una associazione tra inquinamento e aumentato rischio di malattie infettive influenza-like è stata evidenziata in uno studio condotto in Cina (Su, 2019).

Gli studi fino ad oggi suggeriscono che il virus che causa COVID-19 viene trasmesso principalmente attraverso le goccioline respiratorie (droplets) di persona infetta a distanza ravvicinata a seguito di un colpo di tosse o di uno starnuto o la semplice parola; più raro il contagio attraverso le superfici infette (Cheng et al., 2020; Lewis, 2020; Schwartz, 2020). Vi sono anche alcune indicazioni che suggeriscono che il virus nell’aerosol di un ambiente chiuso possa essere ancora infettivo (NAS, 2020, Lewis, 2020). Si è infine ipotizzato che il particolato atmosferico possa essere un supporto (carrier) per la diffusione del virus per via aerea, ma questa ultima ipotesi non sembra avere alcuna plausibilità biologica. Infatti, pur riconoscendo al PM la capacità di veicolare particelle biologiche (batteri, spore, pollini, virus, funghi, alghe, frammenti vegetali), appare implausibile che i Coronavirus possano mantenere intatte le loro caratteristiche morfologiche e le loro proprietà infettive anche dopo una permanenza più o meno prolungata nell’ambiente outdoor. Temperatura, essiccamento e UV danneggiano infatti l’involucro del virus e quindi la sua capacità di infettare. La diffusione non corretta di tale ipotesi, non suffragate da evidenza scientifica, può essere molto fuorviante nella comunicazione del rischio alla popolazione, già disorientata dalla contrapposizione fra “distanze di sicurezza”, troppo ravvicinate – se consideriamo la possibile trasmissione aerea via micro-droplets in ambienti chiusi (National Academy of Sciences degli Stati Uniti (https://www.nap.edu/catalog/25769/rapid-expert-consultation-on-the-possibility-of-bioaerosol-spread-of-sars-cov-2-for-the-covid-19-pandemic-april-1-2020)- e la improbabile diffusione a chilometri di distanza secondo l’ipotesi “carrier”. Le modalità di trasmissione, così come la prevenzione del contagio, dovrebbero essere comunicate con estrema chiarezza perché sono attualmente l’aspetto più importante della diffusione dell’infezione.

Accanto alle considerazioni sugli effetti della salute, occorre tener conto che i dati provenienti da osservazioni satellitari mostrano una chiara riduzione dei livelli di inquinamento in tutti i paesi in lockdown. Dal 9 marzo i livelli di NO2 a Milano e in altre parti del nord Italia sono diminuiti di circa il 40%. E’ ovvio che occorrerà studiare meglio le ragioni di tale diminuzione delle concentrazioni, ma è plausibile una responsabilità della drastica diminuzione del traffico stradale e delle attività industriali (https://www.theguardian.com/environment/2020/mar/23/coronavirus-pandemic-leading-to-huge-drop-in-air-pollution?CMP=Share_iOSApp_Other).

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