ARTE E CULTURA
Comunicato Stampa

CINEMA-DRAMATERAPIA: Una Camera a Guado nello Stagno, di E. Gioacchini

25/01/11

L’ottica di una camera che riprende sopra e sotto la superficie del guado. Per metà ranocchio e metà Principe, l’interprete-personaggio è condotto dentro la pellicola a rivisitare i propri gesti ed abiti, mentre continua a lavorare il processo dramma-terapico: cinema-dramaterapia. Il Seminario sarà preceduto dalla Presentazione del Volume "Costruire lo Sguardo", di Plinio Perilli, Ed. Mancosu,Mi.2009 Performance Introduttiva di Nina Maroccolo

Roma, 3 febbraio 2011
Per discutere di cinema-dramaterapia è necessario fare qualche premessa epistemologica e metodologica sulla Cinema Therapy.
La funzione sciamanica, quasi 'profetica' che può essere riferita all'arte, nel contesto psicoterapeutico della cinema therapy, è realizzata pienamente in quello che secondo Birgit Wolz e molti altri psicoterapeuti è definito come “sciamanesimo moderno”. Si tratta di un lavoro interno al soggetto, suscitato dalla pellicola, in un setting di terapia, ma anche formativo e ricreativo. In queste situazioni, quella che viene ad essere stimolata è una “catarsi”, nell’accezione più moderna del termine, che spesso si svolge senza discussione esterna visibile, senza un’interpretazione del dialogo -una serie di operazioni mentali che coinvolgono profondamente i processi inconsci nella sfera cognitiva ed emozionale dell’individuo (Tyson, Foster, e Jones, 2000), anche al di fuori della sua consapevolezza. In drammaterapia la catarsi è l’equivalente di un processo rappresentativo che comporta una nuova attribuzione di senso a quanto si esperisce nella specifica rievocazione. In tale direzione lavora quello che definiamo processo dramma terapico, una costante stimolo da parte del vissuto rappresentato dal soggetto e dal gruppo ad evocare quanto sommerso: in questo consiste il drama.
Quest’ultimo concetto ci riporta a re-introdurre nella comprensione del meccanismo “curativo” l’importanza dell’azione, della partecipazione sensoriale-emotiva, all’attribuzione di significato propria dell’insight, quale comprensione della propria vicenda nel contesto degli elementi più significativi della personalità. Dunque, la dimensione transferale colta da Freud in poi nei sentimenti (agiti o pensati, consapevoli o meno, verso il terapeuta e verso il mondo). Afferma Fornari in proposito: “…il transfert significa che gli affetti non presentano se stessi, ma stanno al posto di qualcosa d’altro, di altri affetti, per altre persone. Il transfert contiene la situazione teatrica, nel senso che l’affetto per una persona trasforma la persona in qualcosa che sta al posto di un personaggio”. Ed in questo particolare approccio terapeutico è fondamentalmente rispettata la libertà del rapporto e la sua profonda indipendenza proprio attraverso la dimensione della “intersoggettività”, che non esclude le dinamiche transferali, ma che sottolinea la laicità nella relazione d’aiuto, rispetto al modello paternalistico o solo informativo di alcuni contesti (della trasmissione dei dati). Il Glossario del Researching Society and Culture dà questa definizione del termine "intersoggettività: “ …è costituita dal senso commune dai significati comuni costruiti dagli individui nelle loro interazioni reciproche ed utilizzati come risorsa costante per interpretare il senso degli elementi della vita sociale e culturale” (Second Edition, Clive Seale Editor). Quanto espresso bene si condensa nelle parole di Hans Jonas quando afferma che “…la responsabilità verso l'altro non ha tanto la funzione di determinare quanto quella di rendere possibile”.
Appare immediatamente evidente come, nella visione di un film, si realizzi una intensa condivisione “culturale” di alcuni contenuti che, tuttavia, lasciano possibile la “significazione” personale della trama, delle azioni, degli eventi descritti. Questo coinvolgimento dello “spettatore”, dove guidato, discusso ed elaborato, elicita una fantasmatica che ripropone conflitti e risorse ed offre una preziosa opportunità verso il superamento ed il cambiamento. L’apparente “mascheramento” della propria vicenda, come rivissuta, all’interno del soggetto cinematografico, riproduce esattamente quanto avviene nello psichismo con i significati manifesti, ma poi, paradossalmente offre la possibilità di togliere la maschera alle zone d’ombra della persona, quelle che sono sempre responsabili del sequestro delle energie e delle risorse, altrimenti utilizzabili ed inerisce ai contenuti latenti. Attraverso il setting di cinema therapy vi è lo stimolo ad costante processo d’identificazione (assimilazione al personaggio o discostamento da lui)che fanno dello stesso setting terapeutico un “oggetto transazionale” (E. Gioacchini, 2005). Afferma Birgit Wolz, una delle voci più autorevoli della cinema therapy: “…l’'osservazione di un film ha un effetto magico, più di qualsiasi altro mezzo di narrazione; i film hanno la potenza di dipingerci fuori da noi stessi e nell'esperienza dei loro personaggi. Allo stesso tempo, è spesso più facile mantenere una distanza o una prospettiva sana durante l'osservazione di un film di quanto lo sia in situazioni di vita reali”…e sarebbe proprio questo elemento che nel contesto di una qualsivoglia psicoterapia darebbe luogo a processi di trasformazione e guarigione. Inoltre, deve essere osservato che questo felice accostamento alla “verità” umana del soggetto, sia da parte dello stesso che del terapeuta nel setting di cinematherapy è mediato attraverso la condivisione, ma non permette inganni nei confronti dell’autenticità, eludendo molte delle possibili resistenze del soggetto.

Se quanto brevemente riassunto descrive l’essenza della cinema therapy, è nella stessa azione cinematografica che risiede il senso della cinema-drama-terapia, così coniato (E. Gioacchini, 2006); sia che venga utilizzata in contesti clinici o solo a scopi di formazione o ricreativi
Si deve premettere che questa metodologia non si riferisce unicamente al sincretismo tra il setting drammaterapico e quello della cinemathearpy, quale giustapposizione di due metodi. Formalmente si può descrivere l’operazione distinguendola in due momenti: 1) quello dell’azione dramaterapeutica che ha avuto luogo con la contestuale ripresa registrata e (2) quella che si riferisce alla possibile ridefinizione terapeutica attraverso l’elaborazione da parte del gruppo. Ma non si tratta unicamente di questo. A significare il modo intimo e sinergico in cui vi è l’incontro delle due tecniche, basterebbe notare come, nella prima fase, il grande '"occhio" del mezzo di ripresa che registra la situazione in atto viene sfruttato nella sua indubbia azione “interferente” su quanto si sta svolgendo.. Infatti, nella situazione di ripresa, mentre è in atto il processo dramma terapeutico, non c’è solo un soggetto/oggetto del gruppo o l’audience del pubblico, a rappresentare l'altro (quanto perfomato dagli attori), ma è piuttosto l’intero gruppo, il “teatro” nelle sue componenti ad essere oggetto di una osservazione “aliena”: la macchina da presa. La drammatizzazione viene inserita in una meccanismo del tipo matrioska, che riporta il processo ad una costante meta-categorizzazione delle relazioni; una comprensione non unicamente affidata all'azione e, per molti versi, direttiva. La ripresa cinematografica, quindi, non soltanto possiede la funzione di registrazione utile per la seconda fase del briefing e dell’analisi da parte del gruppo, ma inerisce a un diverso modello di funzionamento dello stesso, che è insieme soggetto osservante ed osservato; funzionamento meno affidato ad un concetto di catarsi del tipo “evacuativo”, prestandosi a sollecitare quella distanza “estetica” dal conflitto che è richiesta e la fase di visione sollecita maggiormante. Osserviamo che, in tale situazione, il gruppo, gli attori, il regista sanno di essere “osservati” e registrati” e questo dato, con il tempo, viene a perdere il significato di elemento di disturbo, a vantaggio di uno stimolo alla ricerca introspettiva maggiore: una specie di gancio conscio-inconscio che sollecita l’emergenza dei contenuti inconsci, piuttosto che distrarre, come apparentemente si potrebbe supporre. Questa consapevolezza, infatti, crea reazioni di continuo di controllo e perdita di esso, nella paradossale ricerca del proprio spazio privato spontaneo ed autentico. La macchina da presa è comandata dal Director o anche da uno dei partecipanti e compie riprese che hanno il duplice scopo di sollecitare ed esplorare attraverso ottiche differenti (chi riprende) la stessa scena.
Un esempio può aiutarci a comprendere meglio. Consideriamo il fattore 'resilienza' nel contesto dello stress che il “drama” sta esprimendo in una data situazione performativa del setting drammaterapico. Nel caso della cinema-dramaterapia, il gruppo degli attori non si confronterà più soltanto con la vicenda rappresentata, ma sarà disponibile un tempo supplementare di rielaborazione e significazione più analitica di quanto avvenuto (sulla falsa riga dello statuto operativo della micropsicanalisi). E’ così intuibile come la cine-drama-terapia colleghi elementi del teatro con quelli del cinema: il soggetto, mentre gioca la sua parte, è solo apparentemente 'distratto' da propria 'narrazione esterna' e, piuttosto, finisce per offrire quasi sempre una massiccia proiezione di se stesso sulla scena. Questo accade grazie al lavoro dramaterapeutico svolto precedentemente, nell’apprendimento della parte e nella interpretazione del personaggio. La scena finale registrata può poi essere ri-analizzata ed elaborata all'interno del gruppo, proprio come accade nella cinema therapy, nel confronto tra quanto esperito ed ora ri-visto. E’ qui l’attore che esercita un ascolto finalmente responsabile della propria “azione scenica”, ovvero attraverso una nuova consapevolezza.
Dobbiamo ritenere che quanto Winnicot indica al terapeuta come strada verso l’autenticità” dell’essere, quando afferma “Il medico che ha paura della verità deve imboccare un'altra professione (D.W. Winnicott), debba essere assunto e condiviso anche dal paziente.
Crediamo, tuttavia, che la coscienza dell’individuo sia una funzione evidentemente dinamica e complessa, che non può essere ridotta all’esercizio noetico e dunque all’insight. Essa alberga in in corpo mentalizzato, così come la nostra mente è anche fondamentalmente corpo, sensazione, emozione, dunque azione. Nella dramma terapia ed anche nell’uso del mezzo cinematografico ritroviamo questa interezza di sollecitazione.
"Spensi all’uomo la vista della morte, poi lo feci partecipe del fuoco", così Eschilo descrive i due doni che Prometeo ha dato all’Uomo: la speranza che non vede (la morte) il dono del fuoco che, come interpreta Platone è il saper tecnico(conoscenza) e il saper fare (capacità operativa),per cui la tecnica e i suoi progressi sarebbero basati sull’illusione dell’immortalità.
INFO: info.atelier@dramatherapy.it



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