La longevità è scritta nel genoma umano

Oggi viviamo in media 80-85 anni. Il motivo per il quale alcune persone sono addirittura più longeve, cioè vivono più della media, è in parte scritto nei loro geni.
del 14/07/10 -

L’invecchiamento rappresenta quel processo di tipo degenerativo a cui le cellule, a livello microscopico, insieme a tutto l’organismo, a livello macroscopico, vanno fisiologicamente incontro.
La longevità definisce una durata della vita notevolmente superiore alla media.
Oggi nei paesi industrializzati gli individui vivono in media 80-85 anni. Questo dato si contrappone a quello dei paesi meno sviluppati nei quali gli uomini vivono dai 35 ai 60 anni.

E’ noto come il generale miglioramento delle condizioni di vita, il progresso delle conoscenze nella medicina e nella biologia con la comprensione dei meccanismi patologici alla base di molte malattie, e il conseguente sviluppo di strategie preventive prima che curative, abbiano portato sia ad un aumento della durata media della vita che ad una diminuzione della mortalità.
Si stima infatti che la popolazione mondiale potrà arrivare agli 8 miliardi entro il 2025.

Si ritiene che l’azione combinata di molteplici fattori ambientali (stile di vita, attività fisica, dieta, assenza di fattori di rischio quali fumo e obesità) con una specifica predisposizione genetica possa avere dei benefici sul processo dell’invecchiamento, sia micro che macroscopico, portando in alcuni contesti anche a casi di sostanziale longevità.

LA VARIABILITA’ DEL GENOMA UMANO
Il progetto di studio del genoma umano ha visto il raggiungimento nel 2001 di un traguardo epocale, con la stesura di una prima versione della sua intera sequenza. Uno sforzo tecnologico e finanziario a livello laboratoristico ha infatti consentito, nell’arco di circa 10 anni, di allineare le circa 3 miliardi di basi del DNA (acido desossiribonucleico) di Homo sapiens.

Successivi studi di caratterizzazione di questa enorme sequenza, di per sé poco informativa, hanno evidenziato come solamente un quarto circa di essa sia costituita da geni. Inoltre, è emerso come le sequenze geniche realmente espresse a livello cellulare corrispondano a solo il 2-3% del genoma complessivo.

La comparazione dei genomi di individui diversi ha addirittura dimostrato come essi siano fondamentalmente identici se non per una piccola porzione, pari a circa lo 0,1% della loro lunghezza totale. Questo dato apparentemente irrisorio, corrisponde tuttavia a circa 3 milioni di basi di DNA.

In questo 0,1% risiede la variabilità genetica della specie umana.
Nelle sue 3 milioni di basi di DNA sono presenti sia le varianti più frequenti, quindi verosimilmente benigne, del genoma (polimorfismi) che eventuali mutazioni (rare variazioni genetiche), potenzialmente responsabili di malattie ereditarie.

STUDIO DEI CARATTERI COMPLESSI
I polimorfismi rappresentano quindi la variabilità genetica più comune, perché frequente, fra gli individui e quindi apparentemente senza alcune effetto dannoso sulle cellule dell’organismo.
Un polimorfismo è presente circa ogni 1000 basi di DNA, all’interno del nostro genoma.
Questi polimorfismi, nel corso degli anni, sono diventati un potentissimo strumento per estese analisi di biologia molecolare, soprattutto nel campo della comprensione delle basi genetiche delle patologie complesse.

I tratti complessi, quali l’invecchiamento e la longevità ad esso connessa, piuttosto che le patologie multifattoriali, quali l’ipertensione o l’infarto, sono infatti quei contesti nei quali si ritiene vi possa essere una complessa interazione fra fattori genetici (propri dell’individuo) ed ambientali (esterni all’individuo).

Nel corso degli anni, i ricercatori hanno imparato a sfruttare la presenza dei polimorfismi del DNA, all’interno dei genomi di ogni individuo, al fine di usarli come indicatori di specifiche regioni del nostro genoma, potenzialmente correlate all’insorgenza di malattie.

LA COMPLESSITA’ GENETICA ALLA BASE DELLA LONGEVITA’
L’impiego dei polimorfismi genetici per studiare la longevità nell’uomo è stata efficacemente applicata da un gruppo di ricercatori dell’Università di Boston, con in prima linea l’italiana Paola Sebastiani.

Lo studio pubblicato su Science è stato condotto su più di 500.000 polimorfismi diversi del DNA, comparandone la presenza fra 1055 individui di età compresa fra i 90 e i 115 anni (età media 103 anni) e 1267 soggetti di controllo, con età media di 73 anni.

Il modello genetico così ottenuto, mediante complesse analisi biostatistiche, punta l’attenzione su 105 polimorfismi diversi, localizzati in 77 geni responsabili di molteplici funzioni all’interno delle cellule.
Attraverso la presenza di questi 105 marcatori è possibile fare una stima sull’aspettativa di vita, essendo essi presenti nel 77% degli ultra centenari indagati rispetto ai controlli.

I ricercatori hanno poi valutato l’associazione di queste varianti genetiche comuni con alcune malattie. Sono emersi quindi 19 gruppi diversi, costituiti ognuno da un pool caratteristico di polimorfismi, ognuno dei quali correla con la comparsa di tipiche malattie legate all’invecchiamento, quali la demenza, l’ipertensione, le patologie cardiovascolari.

Gli stessi autori sottolineano come il modello non sia perfetto: questo conferma come fattori ambientali, indipendenti da quelli genetici, possano avere un ruolo nella longevità della specie umana.



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