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Intervista a Simone Corvasce, autore di Algoritmi di scacchi e passi d’angeli

06/07/21

L'intervista a Simone Corvasce offre spunti di profonda riflessione sulla poesia e le sue caratteristiche.

FotoQuanti piani di lettura può avere un’opera? Fino a che punto possono convivere l’immediatezza del sentimento e l’erudizione letteraria? Questa è la sfida alla base di Algoritmi di scacchi e passi d’angeli. Dietro una scrittura piana, scorrevole e intima è celata un’intricata giungla di riferimenti letterari. Ma il fine ultimo resta il viaggio, un viaggio attraverso le angosce dell’uomo, le relazioni umane, il mondo classico, la religione, la scienza.

 La silloge Algoritmi di scacchi e passi d’angeli, Nulla die, è l’esordio letterario di Simone Corvasce, nato a Roma nel 1993. Dopo essersi diviso tra il Corso di laurea in Filologia Classica (Università La Sapienza) e la Scuola di Organo a canne (Conservatorio di Frosinone) ha intrapreso il dottorato di ricerca presso l’Università degli Studi di Pisa. Gli Algoritmi sono il frutto di queste due esperienze.

L'intervista a Simone Corvasce offre spunti di profonda riflessione sulla poesia e le sue caratteristiche.

1) Filologo, musicista e ora poeta. Evoluzione naturale?

La storia dei miei primi tentativi poetici parla da sé. Composi i miei primi versi dopo una folgorazione per la metrica classica. E questa folgorazione avvenne soprattutto in ragione della mia pratica musicale. Questo ai tempi del liceo. Da allora il classicista, il musicista e il poeta sono rimasti indissolubilmente intrecciati. La pratica della poesia mi ha aiutato a non smettere di vedere l’attualità anche nello studio filologico più tecnico. La filologia mi ha permesso di vivere la scrittura come un modo per portare avanti un discorso, attualizzare una tradizione. La musica, e soprattutto la composizione musicale, mi hanno incoraggiato a praticare l’arte come un’attività artigianale, fatta di soluzioni tecniche finalizzate a un effetto psicagogico. A dispetto dello stereotipo romantico del genio ispirato.

2) Che caratteristiche deve avere l'opera poetica?

La parola poesia è correntemente legata all’espressione di sentimenti profondi, o alla capacità di illuminare la realtà, o all’idea di elevatezza formale. Ma va considerato il rischio di confondere alcune proprietà della poesia, o di alcune forme poetiche, con una definizione di poesia. Facendo torto a generi poetici antichi e moderni meno elevati, come la poesia scoptica o il divertissement. Forse sarebbe meglio tornare ad accentuare lo statuto ritmico, o genericamente acustico, della poesia. Come conciliare i due aspetti? Provo a metterla così. È riconosciuto che la lingua sia il mezzo tramite il quale pensiamo. Mi piace credere che nel momento in cui ci accorgiamo che la lingua, qualcosa che ci è tanto naturale e incarnato, comincia a produrre un suono, un ritmo, siamo costretti ad un’esperienza estetica del linguaggio: in altre parole siamo costretti a osservare noi stessi e la realtà in modo diverso. Al di là del contenuto.

3) Che ruolo ha la metrica?

La metrica tradizionale è un’opportunità e un rischio. Un’opportunità perché permette di ottenere un ritmo ben collaudato senza il tormento di cercarne uno da sé. Un rischio perché è troppo facile scadere in un risultato artificiale, sclerotizzato. La stessa storia della letteratura italiana è la storia di una continua ricerca di innovazioni all’interno della metrica come codice. Penso alle ottave di Tasso rispetto a quelle di Ariosto, ai sonetti di Foscolo, alle terzine dantesche di Pascoli, alla leggerezza di Penna. Nel Novecento portare avanti la ricerca di un suono nuovo ha spesso significato l’abbandono della metrica tradizionale. Ma in fondo la storia della letteratura, come di qualunque forma di arte, non è un processo lineare: è fatta di rotture e riscoperte. La ricerca di una mia voce poetica è passata per lo sforzo di trovare un suono personale, che fosse discreto e nascosto, quasi inconsciamente eufonico, all’endecasillabo e al settenario. È un debito con il passato.

4) Cosa pensi della poesia che non si basa su una qualsiasi struttura metrica?

Storicamente il verso libero è stato una sorta di punto di arrivo di un processo forse inevitabile. Nella mia esperienza ho vissuto il verso libero con il timore di abbandonare forme secolari senza avere la garanzia che ne sarebbe valsa la pena. Ma credo di averci cavato fuori qualcosa di buono. Negli Algoritmi di scacchi e passi d’angeli ve ne sono di poesie in verso libero e sono pensate per avere un suono marcatamente diverso da quella sorta di tappeto eufonico che ho ricercato nella metrica tradizionale. Per ottenere questo sono ricorso o al verso molto breve, privo di punteggiatura, persino monoverbale, o all’ipermetro. Ma, al di là del mezzo, penso sia imperativo che la poesia insegua un effetto acustico distintivo.



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