Linfoma di Hodgkin: cos'è e come curarlo

Il linfoma di Hodgkin non è una malattia che colpisce un ampio raggio di persone ma è bene sapere cos'è, come riconoscerlo e quali sono le cure per poterlo affrontare.
del 16/01/17 -

Il linfoma di Hodgkin non miete molte vittime ogni anno, le stime sostengono che si ammalino circa due persone ogni 100000, e la percentuale di guarigione si aggira mediamente attorno al 70%, ma con l’avanzare dell’età le cure possono diventare sempre più difficili da sostenere. Ecco allora come riconoscere immediatamente la malattia.

Il linfoma di Hodgkin, talvolta indicato semplicemente con la sigla LH, è una proliferazione maligna che intacca principalmente il tessuto linfonodale ed il midollo osseo.

Dal momento che tale forma tumorale interessa il sistema linfatico, costituito da vasi linfatici che, esattamente come i vasi sanguigni, raggiungono ogni punto dell’organismo, esso può svilupparsi in qualsiasi parte del corpo, ma normalmente ne coinvolge le aree superiori come la zona cervicale, toracica e le braccia. Poiché i linfonodi sono agglomerati di linfociti, ovvero globuli bianchi responsabili del buon funzionamento del sistema immunitario, le prime conseguenze patologiche del linfoma di Hodgkin sono una grave immunodeficienza e una forte suscettibilità alle infezioni.

Ma che cosa causa il linfoma di Hodgkin? Esiste un modo per prevenirlo?

Quali individui risultano essere più vulnerabili? Purtroppo non esiste un modo per prevenire tale forma tumorale, ma i medici sono stati in grado di individuare delle fasce a rischio. Gli uomini, infatti, sono più soggetti rispetto alle donne, ed esistono picchi di tale malattia nei giovani adulti di età compresa tra i 20 e i 30 anni e negli anziani che hanno superato i 70 anni, in particolare intorno ai 75 anni si verifica un massimo di 7 ammalati annui ogni 100.000 soggetti. Sono inoltre particolarmente predisposti a questo tipo di tumore coloro il cui sistema immunitario è già soggetto ad un mal funzionamento a causa di malattie autoimmuni oppure perché sono già affetti da HIV o AIDS. Anche il virus di Epsten-Barr, responsabile della mononucleosi, potrebbe avere un ruolo nello sviluppo del linfoma di Hodgkin.

La principale causa del linfoma di Hodgkin è la formazione all’interno dell’organismo delle cellule di Reed-Sternberg, linfociti di tipo B modificati dalla proliferazione maligna, le quali presentano due nuclei e due nucleoli ed hanno, pertanto, la caratteristica forma “ad occhi di civetta”, e sono quindi facilmente riconoscibile durante gli esami clinici.

Ma quand’è il momento di sottoporsi a degli esami?

I principali sintomi del linfoma di Hodgkin sono una linfoadenomegalia cervicale ed un generale ingrossamento dei linfonodi, spesso dolenti. Man mano che la malattia si sviluppa, inoltre, si presentano febbri molto frequenti, con cadenza settimanale o mensile, sudorazioni notturne, perdita di peso e pruriti su tutto il corpo. Non sono da sottovalutare nemmeno un’eccessiva stanchezza ed una costante mancanza di appetito. Nel caso di linfomi che interessino l’area toracica si possono accusare tosse, dolori al petto e difficoltà a respirare.

Come si diagnostica il linfoma di Hodgkin? È possibile curarsi?

Il primo esame assolutamente necessario per la diagnosi del linfoma di Hodgkin è sicuramente una biopsia, ovvero il prelievo di un campione di tessuto linfonodale che verrà in seguito esaminato al microscopio. Si procederà, poi, con la diagnostica per immagini, ovvero radiografie ed ecografie e talvolta, anche una risonanza magnetica oppure l’individuazione del sistema linfatico mediante l’introduzione nell’organismo di un mezzo di contrasto.

Le cure possibili per il linfoma di Hodgkin sono la radioterapia e la chemioterapia, fatto, questo, che rende la guarigione per gli anziani più difficile perché un fisico non più giovanissimo difficilmente sopporta un dosaggio chemioterapico superiore al 50% di quello considerato ottimale. Tuttavia, esiste una soluzione anche a questo ostacolo, come ad esempio la scelta di ridurre l’ampiezza del campo da irradiare, prolungando la chemioterapia per 6-8 mesi ed aiutando l’organismo con l’utilizzo di fattori di crescita emolinfopoietici per superare la perdita delle cellule linfatiche.

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