ARTE E CULTURA
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Napoli. Edito per la Grause Editore il libro di Donato D’Aiuto: “La storia di un uomo solo”. Da un giovane uomo pieno di vita e di passioni, il racconto di un giovane uomo che brucia la sua vita nell’alcool e nel rimpianto.

04/09/17

Leggendo il lavoro di Donato D’Aiuto, alla fine, si ha come la percezione che voglia essere proprio una lezione di vita, che sia stato scritto anche allo scopo di offrire, a quanti possono in qualche modo vivere la vita in modo simile al personaggio principale del suo lavoro, una sorta di esempio negativo da non prendere in considerazione, che spinga invece a battersi per concretizzare le proprie aspirazioni.

FotoEdito per la Grause Editore, il libro di Donato D’Aiuto è sul mercato: “La storia di un uomo solo”.
Prima di parlare del lavoro letterario, vogliamo descriverne l’autore: figlio d’arte, sia da parte di padre che di madre, per quanto riguarda l’attività di avvocato, da Cilentano, si è spostato per gli studi a Firenze, laddove non poteva non “contaminarsi” con la bellezza, la cultura e l’amore per la conoscenza.
Dotato di forte personalità e aspetto molto gradevole, si dedica con passione sia alla natura, che ama conoscere anche attraverso la sua abilità di cavallerizzo, che ad ogni occasione utile per partecipare alla società attivamente, così come ha fatto fungendo da voce narrante per uno spettacolo dedicato ad Edoardo De Filippo.
Temperamento estroverso, pronto a cogliere la positività della vita, ha creato, immergendovisi come per un “altro” vissuto, un personaggio che la fortuna ha abbandonato, cui però alla fortuna sembra non sia disponibile ad offrire altre opportunità, perché non ha la costanza di attendere che gliele offra.
Osservando l’autore, dicevamo, scorgiamo in lui tutte le doti e le fortune che sono negate al suo personaggio. Marco (il protagonista), o anche Vodka, oppure Apache (…nei film western faceva il tifo per gli indiani), vive certamente un periodo sfortunato, scoprendo il tradimento della fidanzata e dovendo patire la morte del padre, ma al di là del contingente, sembra innanzitutto non avere in sé “l’elen vital” che gli servirebbe per uscire dal baratro.
Si chiede chi mai potrebbe piangerne la morte, senza accorgersi di quanti lo apprezzano e potrebbero sentirne la mancanza qual ora lui lasciasse questo mondo.
L’autore permette al lettore di comprendere come il suo personaggio possieda grandi doti giornalistiche, eppure le uccide, dedicandosi ad articoli di poco conto, per un giornale di provincia, il cui capo redattore (almeno a quanto recepisce lui), non sembra apprezzarne neanche lo stile letterario.
E’ un individuo negativo, che saremmo portati ad avvicinare allo sfortunato Edgar Allan Poe che scriveva di sé ad un amico:
-“Sono in uno stato depressivo spirituale mai fino a ora avvertito. Mi sforzo invano sotto questa malinconia e credetemi, quando Vi dico che malgrado il miglioramento della mia condizione mi vedo sempre miserabile.(…) io soffro in questa depressione di spirito che se prolungata, mi rovinerà…”-
Il nostro antieroe, benché si dica:
-: “Dio ci crea, ma siamo noi gli artefici del nostro destino.”-
Non si dimostra capace di modificarlo e sembra svuotato da ogni capacità di ritornare sui propri passi, ridisegnare la propria esistenza, perdonare al destino le cattiverie che gli ha inflitto e rendersi conto che intorno a lui c’è un mondo disponibile, propenso ad aiutarlo, soltanto se si decidesse a prestarvi attenzione.
-“Aveva un solo desiderio: sapere quante persone avrebbero sofferto se lui fosse morto.”-
In effetti era convinto che nessuno ne avrebbe sentito la mancanza.
Leggendo il lavoro di Donato D’Aiuto, alla fine, si ha come la percezione che voglia essere proprio una lezione di vita, che sia stato scritto anche allo scopo di offrire, a quanti possono in qualche modo vivere la vita in modo simile al personaggio principale del suo lavoro, una sorta di esempio negativo da non prendere in considerazione, che spinga invece a battersi per concretizzare le proprie aspirazioni.
Donato, nato nel Cilento (Cis Alentum, dal nome del fiume amato da Cicerone), un territorio apparentemente bucolico, tuttavia ricco di una storia millenaria cui l’Essere e il non Essere di Parmenide fanno sempre da sottofondo, è uomo attivo, abituato a coltivare amicizie, chiaramente certo di essere presente nei fatti e/o nei pensieri di una diversa umanità. Abituato ai viaggi, agli spostamenti nel tempo e nello spazio, all’adeguamento sociale in terre differenti da quella di origine.
Marco, l’antieroe del suo lavoro letterario, ha invece perduto se stesso nel momento in cui ha perso gli agganci con le persone che rappresentavano le sue certezze. E’ divenuto come una zattera smarrita nell’oceano, distaccato dall’ambiente, dalla capacità di organizzarsi un’esistenza nuova, di rinnovarsi, di essere presente a se stesso e a nuovi indirizzi di pensiero.
Un alter ego che non assomiglia in nulla, se non, forse, in alcune qualità intrinseche che il giovane Marco rinnega, al suo giovane creatore.
Chiedersi in quale modo risolverà (se risolverà), le sue inquietudini accompagnerà il lettore nello svolgimento del testo, il cui finale, ovviamente, ci guardiamo bene dallo svelare.
Bianca Fasano



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