Storia della moneta o della numismatica (III parte)

Nella scorsa puntata dedicata alla numismatica, abbiamo affrontato la nascita delle prime banconote.
del 21/07/14 -

Il loro problema, come d’altronde quello delle loro sorelle metalliche, era il metodo di valorizzazione della valuta.

Uno stato poteva coniare moneta solo in base alla quantità di metalli preziosi che possedeva (per le banconote il meccanismo era il medesimo: anche se fatte di carta, chiunque poteva chiedere la loro conversione in oro: era dunque necessario che lo stato possedesse fisicamente il metallo).

Inoltre, il trasporto di numismatica all’estero era un grave colpo per l’economia di uno stato: il metallo prezioso con cui erano coniate veniva infatti trasportato all’estero, e quindi si privava fisicamente di liquidità uno stato. Tecnicamente, persino depositare in una banca (all’estero come in patria) un grosso quantitativo di denaro impoveriva nettamente uno stato.

I tassi di cambio della numismatica

Per questi motivi, si decise di coniare nuovi tipi di numismatica: non più in metalli preziosi, ma in materiale meno costoso. Ogni moneta avrebbe avuto poi una valuta “nominale”. La moneta aveva dunque un valore in relazione a qualcos’altro. Inizia così il tempo dei tassi di cambio.

Nel primo periodo, la valuta di ogni stato aveva imposto come tasso di cambio la quantità di metallo prezioso posseduta da ogni paese: in pratica, uno stato non poteva stampare più cartamoneta di quanto oro non possedesse.

Ciò ovviamente poneva stretti limiti all’emissione del denaro, senza contare che si proponevano problemi molto simili (e per un certo verso speculari) a quelli già affrontati dalla numismtica metallica. Se infatti uno stato si impoveriva, era subito necessario ritirare dalla circolazione la moneta che eccedeva le riserve di metalli preziosi.

Il sistema Bretton-Woods

In particolare, dopo il secondo dopoguerra la situazione si fece particolarmente traumatica: alcuni stati (come ad esempio la germania) avevano le casse statali praticamente vuote, senza dimenticare che il periodo di iperinflazione aveva mostrato chiaramente i problemi di questo sistema di tassi di cambio.

Così si decise di razionalizzare il tutto con gli accordi internazionali di Bretton Woods, siglati nel 1944 e che crearono un sistema rimasto in vigore sino al 1971.

Questo nuovo sistema (conosciuto poi comunemente come sistema Bretton-Woods) prevedeva che tutte le monete fossero “ancorate” al dollaro. Ciò significa che ogni valuta aveva un tasso di cambio fisso rispetto al dollaro (o, per essere più precisi: il sistema consentiva piccole oscillazioni del cambio entro un range predefinito).

Il dollaro era poi l’unica numismatica ad essere convertibile in oro: il tasso fissato fu di 35 dollari per un’oncia.

Ovviamente, questo sistema non consentiva metodi di calcolo veloci e lineari: se, per esempio, un qualsiasi operatore avesse avuto bisogno di trasformare yen in sterline, avrebbe dovuto controllare il tasso di cambio tra yen e dollari, e poi tra dollari e sterline. Insomma, erano richiesti parecchi passaggi.

Il fatto che poi i range di oscillazione dei tassi fossero stabiliti e praticamente fissi impediva alla numismatica emergente di “fuggire” dai canoni previsti: insomma, un paese in forte miglioramento economico non avrebbe comunque visto la sua moneta rafforzarsi in maniera simmetrica.

Un sistema di cambio “fisso”, inoltre, impedisce alle banche centrali di attuare vari strumenti della politica monetaria.


  1. Leggi la 1a parte

  2. Leggi la 2a parte



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