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Fallimenti e calcoli bellico-industriali statunitensi in Afghanistan. Analisi di Giancarlo Elia Valori

24/08/21

Giancarlo Elia Volri, top manager e grande protagonista delle relazioni internazionali in questa analisi ci conduce attraverso il percorso che ha portato al fallimento dell'operazione della Nato e messo in crisi la leadership USA.

FotoGli analisti hanno sottolineato che la guerra di ventennale in Afghanistan ha dimostrato che gli Usa hanno fallito nell’usare la forza per risolvere il problema. Mi ricordano un esponente politico del nostro Paese che, una volta iniziate le operazioni per l’invasione statunitense dell’Afghanistan nel 2001, disse in tv che la Casa Bianca faceva bene a bombardare quel Paese per togliere il burqa’ alle donne. Auspicare la violenza indiscriminata per cancellare un’altra violenza, bensì mirata, è un fare immorale e criminale.

Gli Usa sono andati incontro a quattro fallimenti ed ad un successo in dollari che esamineremo man mano.

La situazione in Afghanistan è ancora in evoluzione. Per l’Afghanistan resta da vedere la direzione del futuro, ma per gli Usa è una certezza che ha incontrato un completo fallimento.

Tuttavia, dal fallimento militare evidenziato dalla squallida ritirata, dal crollo della diplomazia americana alla screditata reputazione internazionale, vedremo tutti i grandi fallimenti che hanno vissuto gli Usa. Fino a quando gli Usa non muteranno la loro strategia egemonica, incontreranno sempre più fallimenti in futuro.

Mentre gli statunitensi fuggivano frettolosamente da Kabul, il modello occidentale guidato da questi è stato ancora una volta colpito duramente. Il che ha pure evidenziato che ogni volta che gli Stati dell’Unione Europea si piegano agli ordini di Casa Bianca e Pentagono, poi non hanno altro modo che scusarsi con stucchevoli piagnistei vari, relativi ai diritti umani e sull’accoglienza verso quelli più fortunati che hanno disponibilità economica per scappare.

Chi non ricorda i boat people? Ossia i facoltosi sudvietnamiti che abbandonavano Saigon, mentre gli staracarichi elicotteri statunitensi lasciavano di corsa il Paese e i predetti boat people erano presi a carico in specie dalla Francia.

Il rapporto dell’Ispettore Generale Speciale
Il 17 agosto, l’Ufficio Usa dell’Ispettore Generale Speciale per la Ricostruzione dell’Afghanistan ha pubblicato un rapporto affermando che, nonostante gli enormi investimenti e le pesanti perdite degli ultimi vent’anni, a causa della mancanza di comprensione della politica e della cultura afghane, e ignorando deliberatamente la volontà degli afghani, gli Usa in Afghanistan, hanno perseguito un’illusione «destinata a fallire sin dall’inizio».

Secondo alcuni osservatori, questo rapporto di 140 pagine è stato scritto molto prima che gli Usa si ritirassero frettolosamente dall’Afghanistan e rivela in dettaglio perché Washington ha investito così tanto in Afghanistan negli ultimi vent’anni ma alla fine ha fallito.

Il rapporto ha sottolineato che le politiche dei successivi governi degli Usa hanno ignorato la situazione attuale in Afghanistan e la volontà del popolo afghano, e hanno cercato di forzare un modello di sviluppo che era seriamente fuori dalla realtà in Afghanistan. Questa politica era destinata a fallire fin dall’inizio. Secondo il rapporto, molti funzionari statunitensi hanno affermato che gli Usa hanno sempre «mancato la comprensione più basilare» dell’Afghanistan. Usa che non «sapevano cosa far lì», ma nonostante l’avvertimento degli esperti statunitensi coscienziosi, essi non sono riusciti a influenzare le precedenti amministrazioni che enfatizzavano e vantavano i presunti successi ottenuti colà.

L’ispettore speciale degli Usa per la ricostruzione dell’Afghanistan, John F. Sopko, ha sottolineato nel rapporto che i politici statunitensi sono «molto ignoranti» sull’Afghanistan al più alto livello strategico e spesso cercavano di «rimuovere l’Afghanistan vero» applicando la visione di un loro «Afghanistan immaginario» statunitensizzato, e applicando comportamenti che creavano motivi di conflitto con la popolazione locale.

Inoltre, Sopko afferma che ci sono stati gravi problemi di corruzione e sprechi nel sistema su cui gli Usa hanno fatto affidamento per operare nel Paese: molti progetti di ricostruzione in Afghanistan sono costati molti soldi ma alla fine inevitabilmente sono restati incompiuti.

Il rapporto ha anche sottolineato che negli ultimi vent’anni gli Usa non sono stati in grado di stabilire con successo un modello operativo sostenibile in quel Paese, mentre allo stesso tempo con il ritiro precipitoso pure i pochi fragili frutti maturati sono destinati a marcire.

Alcuni commentatori ritengono che il fallimento del cosiddetto “modello afghano” degli Usa abbia trafitto la falsa illusione di forza e prosperità che Washington ha mantenuto attraverso il loro grandioso soft power.

La retorica è sempre la stessa. Dobbiamo trattare i Paesi cattivi come abbiamo fatto durante la II Guerra mondiale con la nazista Germania, la fascista Italia e il militarista Giappone. Dobbiamo bombardarli e massacrarli e così dopo in quei Paesi nascerà la democrazia che li farà diventare buoni.

L’errore di mettere sullo stesso piano Germania-Italia-Giappone con i Paesi musulmani di Vicino, Medio Oriente e Asia Anteriore: i primi avevano già tradizioni rapprensentative democratico-borgheso-liberali.

Il Giappone e l’emancipazione

Lo stesso Giappone, con la Restaurazione Meiji (1866-1869), pur mirando all’emancipazione del Paese dalle potenze occidentali, si fece promotore di un processo di riforma ispirato proprio ai sistemi statuali occidentali che, soprattutto grazie all’apporto di Itō Hirobumi (1841-1909), culminò con l’adozione della Costituzione Meiji, la prima costituzione intesa in senso moderno in Asia! Mentre il mio amico e grande ministro degli Esteri, Gianni De Michelis – che non andava al mare durante i periodi di crisi – affermava sempre che ogni problema di uno Stato, va risolto secondo la volontà del proprio popolo e con la venuta di guerrafondai violenti e bestiali.

Che cosa hanno ottenuto gli Usa dalla guerra in Afganistan

In definitiva gli Usa hanno lanciato la guerra in Afghanistan in nome dell’antiterrorismo, ma cosa hanno ottenuto? Negli ultimi vent’anni, le organizzazioni terroristiche in Afghanistan si sono moltiplicate. Negli ultimi due decenni, migliaia e migliaia di afgani sono stati uccisi o feriti sotto il fuoco “amico” statunitense e dei suoi alleati, e più di dieci milioni sono stati gli sfollati.

La guerra in Afghanistan ha causato una perdita media di 300 milioni di dollari statunitensi al giorno per vent’anni, pari a un costo di oltre 2.260 miliardi di dollari. Oltre agli innumerevoli morti.

All’aprile 2021, la popolazione afghana ha registrato 47.245 vittime civili; 66.000 fra militari e polizia afghani; 51.191 decessi da parte dei talebani e altri oppositori, i quali, leggendo la stampa occidentale sembrano invece immortali in quanto questi ultimi sono i cattivi.

L’esercito statunitense ha subìto 2.448 caduti; i mercenari Usa deceduti sono stati 3.846; vittime di altri Stati membri della Nato: 1.144; operatori umanitari: 444; giornalisti: 72. E tutto questo ha gravemente ridotto lo sviluppo economico e sociale del Paese.

I fatti hanno dimostrato ancora una volta che l’intervento militare e la politica di potere statunitense dagli anni Cinquanta del sec. XX sono impopolari e alla fine falliscono.

Un modello straniero non può essere applicato rigidamente a un Paese con storia, cultura e condizioni nazionali completamente diversi, come se fossero polli d’allevamento che col tempo si trasformano in leoni. Risolvere i problemi con il potere e i mezzi militari non fa che aumentare i problemi non agli Usa – che hanno visto rifiorire la propria industria bellica in questi quattro lustri – bensì ai membri dell’Unione Europea, specie con l’imminente problema di rifugiati+Covid 19.

Che si tratti della Corea, del Vietnam, degli Stati dell’America latina (Nicaragua, Grenada, Panamà, ecc. ecc. ecc.), dell’Iraq, della Siria, della Libia o dell’Afghanistan, abbiamo visto che ovunque vadano le forze armate statunitensi, rimangono disordini e divisioni, famiglie distrutte e devastazioni.

Forse se n’è accorto pure il presidente Biden che ha affermato in un suo recente discorso che non commetterà l’errore di investire troppa energia nelle guerre civili di altri Paesi e rimodellare altri Paesi attraverso un intervento militare senza fine.

Si spera che gli Usa possano riflettere seriamente sulla loro politica di intervento e violenza militare in ogni momento, e fermare l’interferenza sfrenata negli affari interni di altri Paesi con il pretesto della democrazia e dei diritti umani e minare la pace e la stabilità di altri Paesi e regioni. E tutto ciò per favorire la propria industria bellica, l’unica uscita con successo dal lago di sangue afgano.

Per sostenere la propria produzione di armi, gli Usa hanno colto quattro fallimenti: politico nazionale (propri cittadini morti per nulla), militare (sconfitta), politico internazionale (amarezza e delusione degli alleati) e crollo della reputazione internazionale (cittadini stranieri ammazzati per volontà imperialistica e menefreghismo nei riguardi degli alleati; altro che il propagandistico I care di odore dommilaniano).

Le élite wasp statunitensi spesso danno per scontato che la democrazia statunitense sia la via per la prosperità e per risolvere tutti i mali della società. Dopo il rovesciamento del regime talebano nel 2001, gli Usa avevano l’ambizione di render l’Afghanistan un “Paese democratico modello”, con la nascita di partiti, movimenti, accoglienza dei disvalori occidentali e abbattimento delle manifestazioni di Dio. Invece non solo non è riuscita a unire tutti i gruppi etnici, ma ha intensificato le contraddizioni all’interno delle élite afghane, che gli Usa stessi avevano finanziato e addestrato (talebani compresi) quando si trattava di respingere i sovietici dal 1979 al 1991.

Guardando indietro ai vent’anni della guerra in Afghanistan, al caos lasciato in Iraq, Libia, Siria e altri Paesi, sempre più persone si stanno rendendo conto che gli Usa sono lungi dall’essere un “grande Paese” come predicavano. Spesso sono una forza distruttiva: la “pace” che auspicano prima di tutto viene tolta ai popoli. Il “modello democratico” che il proprio soft power vende, è ridotto ad una maschera alla Munk per l’intervento militare e la politica di potere.

Sotto il “faro dei diritti umani” è sepolta la storia oscura di persone di altri Paesi, abusate e uccise dall’industria bellica, così come la dolorosa vita quotidiana di decine di migliaia di civili innocenti torturati dalle fiamme della guerra che oggi chiedono rifugio in Europa, poiché negli Usa si innalzano i muri per allontare già il vicino Messico.

Secondo alcuni rapporti, sette reggimenti delle forze governative afgane hanno perso completamente la loro efficacia di combattimento, e tutte le truppe hanno si sono rivolte ai talebani con armi ed equipaggiamenti. I talebani hanno pubblicato sui social network foto e video dei ricchi trofei sequestrati in più ex basi militari statunitensi. I talebani sono una forza che rappresenta il Paese, per cui l’imbarazzo di molti soldati afgani nel combattere dei compatrioti al soldo degli stranieri ad un certo punto è diventato insopportabile.

Il ritiro degli Stati Uniti

Il ritiro degli Usa dall’Afghanistan come la fuga da Saigon: gli elicotteri si libravano incerti e stracarichi nell’aria, i funzionari d’ambasciata ammainavano la bandiera, bruciavano documenti riservati e Washington continuava inviava più soldati per aiutare l’evacuazione: un film già visto. E la frettolosa fuga ha suscitato enormi critiche da ogni parte.

Non importa come il governo degli Usa nasconda e giustifichi la politica catastrofica di ritiro delle truppe. Non solo ha sollevato critiche negli Usa medesimi, ma ha anche causato un declino senza precedenti nell’immagine internazionale di Washington. È stata organizzata una protesta fuori dalla Casa Bianca il 15 agosto. I manifestanti erano afghani di cittadinanza statunitense e hanno mostrato la loro rabbia per protestare contro l’inganno del governo. Questa rabbia permeava anche ex soldati statunitensi che avevano partecipato alla guerra in Afghanistan e solidarizzavano con i concittadini di origine afgana.

Il mondo vede molto chiaramente come gli Usa trattano i loro alleati in Afghanistan. Maria Vladimirovna Zakharova, direttrice del Dipartimento Informazione e Stampa del ministero degli Affari Esteri della Federazione Russa ha dichiarato in un’intervista: «Per vent’anni, la Nato e gli Usa hanno addestrato le forze politiche in Afghanistan. Ora spostano la responsabilità sulla leadership politica afgana che loro stessi hanno coltivato ed educato».

Hussein Haqqani, ex ambasciatore pakistano negli Usa, ha detto: «L’abbandono del governo afgano da parte della Casa Bianca farà sì che molti alleati di Washington riconsiderino gli impegni verso gli Usa». Un chiaro monito da parte di uno dei più importanti alleati di Washington nella regione, già pronto a riconoscere il nuovo esecutivo talebano.

Questo tipo di fallimento diplomatico non colpirà solo la già debole e incerta amministrazione di Joseph Robinette Biden, ma danneggerà anche gravemente la credibilità degli Stati Uniti nel mondo.

Oltre ai politici statunitensi, l’umiliante ritiro delle truppe ha suscitato anche le critiche dei media di questo Paese. La Cnn ha ironicamente affermato che il ritiro e il fallimento delle truppe dell’amministrazione Biden non solo ha mostrato la sua cattiva gestione, ma ha anche rivelato che «la visione degli Stati Uniti di costruire un Paese funzionante è illusoria». Gli stessi politici locali definiscono gli Stati Uniti in Afghanistan il più grande fallimento della politica estera degli ultimi decenni Qual è la causa del fallimento degli Stati Uniti in Afghanistan?

Il 17 agosto, il presidente dell’alleata-Nato, Repubblica Ceca, Miloš Zeman ha dichiarato in un’intervista esclusiva: «Ho già criticato il ritiro al vertice della Nato a Londra un anno fa e ora al vertice della Nato a Bruxelles. Guardavo Trump e Biden negli occhi, dicendo loro che era vigliaccheria. Penso che lasciando l’Afghanistan, gli statunitensi abbiano perso il prestigio di un leader globale e la stessa Nato abbia sollevato dubbi sulla legittimità della sua esistenza». Un tipo da spiaggia italiano sarebbe in grado di affermare queste cose? La codardia non ha effetti positivi. Al contrario, questo offre ai talebani opportunità senza precedenti.

La mancanza di credibilità internazionale, fa prendere coscienza agli alleati di non negoziare e non accettare i diktat degli Usa ma prendersi cura solo di se stessi e della propria politica estera.

Dopo che l’amministrazione Biden era salita al potere, aveva annunciato «Gli Usa sono tornati sulla scena internazionale», dichiarando al mondo che il multilateralismo avrebbe riacquistato spazi. Però sulla questione del ritiro delle truppe dall’Afghanistan, l’amministrazione Biden non ha negoziato con i suoi alleati (Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia, Cechia, ecc.), ma ha creato il fait accompli e ha costretto gli altri a seguire il proprio ritiro. E molti afghani che hanno lavorato per gli Usa sono stati abbandonati. «Il New York Times» ha riferito che questo significa «la fine dell’èra statunitense» ed «è un altro colpo all’immagine degli Usa all’estero».

Prima della caduta di Saigon (30 aprile 1975), il presidente del Vietnam del Sud Nguyen Van Thieu aveva denunciato gli Usa per il tradimento del suo Paese, quali «disumani, inaffidabili e irresponsabili». La stessa scena ora si sta girando in Afghanistan. Gli Usa vogliono solo ritirare le proprie truppe dall’Afghanistan il prima possibile. Come ha commentato l’analista della difesa francese François Heisbourg: «L’idea che gli statunitensi siano inaffidabili diventerà più radicata a causa dell’Afghanistan». Riteniamo che se non impareranno anche dall’Afghanistan, gli Usa subiranno sempre più fallimenti.

Secondo il rapporto de The Chicago Council on Global Affairs pubblicato il 9 agosto 2021 alla domanda se sostengono o si oppongono alla decisione di ritirare le forze statunitensi dall’Afghanistan entro l’11 settembre 2021, il Chicago Council Survey rileva che il 70% degli statunitensi lo sostiene e il 29% si oppone.

«The Stars and Stripes», quotidiano del Dipartimento della Difesa, uscito il 16 agosto, ha posto un titolone in prima pagina: It’s Over: «l’esperimento ventennale dell’Occidente nella trasformazione dell’Afghanistan è finito». La fine di questo flirt è scioccante. L’Afghanistan è stato buttato via come iniquità dagli Usa, e la sua direzione futura resta da vedere. Ma qualunque sia la strada da percorrere per l’Afghanistan, gli Stati Uniti non potranno mai cancellare questa loro storia estremamente vergognosa.

Per concludere diamo una rapida occhiata alle relazioni internazionali dell’ex Emirato Islamico dell’Afghanistan (1996-2001), retto dai talebani. Era riconosciuto pienamente da tre alleati degli Usa: Pakistan, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti; più il riconoscimento della Repubblica Cecena dell’Ičkeria (1994-2000) e dell’incerto Turkmenistan.

Oggi chi pensate riconoscerà il risorto Emirato Islamico dell’Afghanistan? Secondo il mio parere i più fedeli amici statunitensi in Vicino e Medio Oriente e molti altri, in quanto i talebani – perlomeno in questi quarantadue anni che ci separano dall’invasione sovietica – si sono dimostrati i più solidi. E nelle relazioni internazionali contano i fatti e non i discorsetti per diventare deputato o senatore sul voto di ingenui creduloni da bar.

Giancarlo Elia Valori

Note sull’autore
Giancarlo Elia Valori è uno dei più importanti manager italiani. Docente universitario e attento osservatore della situazione politica ed economica internazionale, nella sua lunga carriera ha ricoperto importanti incarichi in prestigiose società italiane (Autostrade per l'Italia) ed estere. Attualmente è Presidente dell’International World Group
Inoltre è presidente onorario di Huawei Italia nonché detentore di importanti cattedre in prestigiosi atenei quali la Yeshiva University di New York, l’Hebrew University di Gerusalemme e la Peking University.
Nel 1992 viene nominato Cavaliere della Legion d’onore con la motivazione: “Un uomo che sa vedere oltre le frontiere per comprendere il mondo”, dall’11 maggio 2001 è ambasciatore di buona volontà dell’Unesco per i meriti profusi generosamente nella difesa e nella promozione del patrimonio immateriale. Nel 2002 riceve il titolo di “Honorable” della Académie des Sciences de l’Institut de France.
Tra i suoi libri ricordiamo: Liberi fino a quando? (Lindau 2019), Rapporti di forza (Rubbettino 2019), Geopolitica e strategia dello spazio (Rizzoli 2006), Antisemitismo, olocausto, negazione (Mondadori 2007), Mediterraneo tra pace e terrorismo (Rizzoli 2008), Il futuro è già qui (Rizzoli 2009), La via della Cina (Rizzoli 2010) e Geopolitica dell’acqua (Rizzoli 2011).
A riconoscimento del suo poliedrico impegno di studioso e pubblicista a respiro universale, ha ricevuto il premio giornalistico “Ischia Mediterraneo”, il “Gran Premio Letterario 2011” dal Consiglio Mondiale del Panafricanismo e il “Premio Internazionale della Cultura” dalla International Immigrants Foundation delle Nazioni Unite.





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