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Comunicato Stampa

Cos’è quella luce?: la parodia della società in una commedia metateatrale

09/10/15

Dopo i successi teatrali ottenuti con Gli Assurdialoghi e con La mente di Don Giovanni, torna la dissacrante comicità di Lodovico Bellè in una nuova commedia, dal titolo misterioso, edita da Bibliotheka Edizioni

FotoCos’è quella luce? Questa è la domanda che i diversi personaggi della pièce si pongono prima di venirne, di volta in volta, misteriosamente attratti ed ingoiati per sempre. Solo una persona ne conosce la risposta: il poeta Canso Baristo che, insieme alla luce stessa, si impone come il vero protagonista della vicenda; è l’unico a rimanere costantemente in scena dal primo all’ultimo atto, pur cambiando ogni volta l’ambientazione e pur risultando completamente estraneo agli altri personaggi; sembrerebbe essere al centro ma, contemporaneamente, anche al di fuori della commedia; una sorta di osservatore onnipresente che attraversa il tempo e lo spazio come un’entità aleatoria. Tuttavia la sua spiegazione sulla natura della luce, come manifestazione della potenza generatrice della poesia, viene (forse) smentita da un epilogo a sorpresa.
I temi affrontati (taluni appena sfiorati) in questa commedia sono molteplici: la distanza abissale tra il mondo intellettuale e quello opulento degli affari (distinti, anche materialmente, da una rete che divide a metà lo spazio scenico), la corruzione politica, l’asservimento nei confronti del potere da parte dell’informazione mediatica, la parodistica estremizzazione dei luoghi comuni della commedia borghese, lo smarrimento dell’elettorato di sinistra dopo la caduta del muro di Berlino, la tragicomica e spasmodica ricerca di vuote certezze in fede e superstizione, ecc..
La pièce è strutturata in cinque atti che - anche per via delle diverse ambientazioni in cui si svolgono (i primi due in spiaggia, il terzo dalla parrucchiera, il quarto nella redazione di un giornale e l’ultimo su un’astronave) - possono apparire reciprocamente avulsi, ma in realtà le vicende che in essi si sviluppano sono strettamente collegate tra loro, così come lo sono i rispettivi protagonisti: personaggi buffi dal “nome parlante” (dal bagnino palestrato Montafico, ai politici corrotti Cavalier Inguattazzi e Ingegner Mazzetta, della sciocca Mademoiselle Ochette, della segretaria “cozza” Miss Chifezza, ecc…) che possono ricordare quelli di Stefano Benni; e - come nei romanzi del celebre scrittore bolognese - anche in questa commedia, se non ci fosse da ridere… ci sarebbe sicuramente da piangere: infatti i protagonisti sono talmente grotteschi e caricaturali da apparire ridicoli; ma, a ben guardare, rispecchiano impietosamente molti dei vizi che caratterizzano la società contemporanea: una società spietata, in cui contano solo l’apparenza, la sete di potere e di ricchezza. Per soddisfare tali bisogni “primari”, i personaggi di questa pièce sono platealmente disposti a corrompere, essere corrotti, imbrogliare, asservirsi al potere e al sistema clientelare, senza farsi nessuno scrupolo di tipo umano e morale.
È proprio dalla naturalezza con cui si mostrano per ciò che sono (non si salvano nemmeno quelli “alternativi”, troppo macchiettistici e mentalmente instabili per risultare credibili) che scaturisce la risata del lettore/spettatore; perché la società che tende a nascondere - più o meno velatamente - i propri difetti nella realtà quotidiana, è portata a riderne in maniera inconsciamente liberatoria quando li vede messi esageratamente alla berlina da una lente deformante.
Questa è una delle grandi intuizioni del teatro manierista aretiniano, a cui tale commedia sembra ispirarsi, anche per via della scurrilità e delle sconcezze goliardiche ed irriverenti che si susseguono a partire dal prologo, fino alla fine dell’epilogo; ma soprattutto per il costante susseguirsi di spunti metateatrali (che tanto hanno influenzato la drammaturgia del ventesimo secolo). Si può dire, anzi, che tutta questa pièce ruoti intorno al perno della sua metateatralità e che lo stesso finale a sorpresa possa essere letto sotto una molteplice ottica: o come un’ovvia conclusione legata a questa sua componente drammaturgica, o - più probabilmente - come un finale aperto alla libera interpretazione da parte di quel lettore/spettatore che non si accontenta nemmeno della spiegazione poetica indicata dal protagonista ma che si spinge a riflettere, lasciandosi trasportare dalla propria immaginazione.



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