ARTE E CULTURA
Articolo

Drammaterapia, Comunicazione & Virtuale

23/11/10

Una riflessione sull'uso delle nuove tecnologie di comunicazione e "virtuali" ed i modelli di funzionamento mentali delle collettività si presta a riflettere significativamente sul significato della "relazione"

La riflessione sull'uso delle nuove tecnologie di comunicazione e "virtuali", di quanto vi è a monte di scientifico, tecnologico, economico delle stesse, a valle, nella variegata pianura dei loro fruitori e sotto traccia nelle ripercussioni individuali e collettive è argomento molto dibattuto, controverso nella sua definizione, tuttavia poco conosciuto da gran parte della collettività. Gli aspetti empirici di quanto ci propone una certa cultura, che non appartiene certamente al "sapere", ma al fare, hanno un ruolo così accattivante, evolvono in maniera così vorticosa, come si è sottolineato nel post precedente, che con difficoltà fanno soffermare il surfista del web sul concetto di bisogni, sullo sfruttamento sostenibile delle risorse planetarie, sull'utilizzo e sulla comprensione delle proprie abilità. Una riflessione etica all’interno della agenzie che gestiscono internet, ad esempio, dovrebbe proporre discussioni e forum su questi argomenti non solo spontanei, ma supportati dalla presenza di esperti, al di fuori di ogni sospetto di conflitto di interesse, che possano permettere al collettivo di riappropriarsi del pensiero su quanto usa, consegue e determina, spesso senza sapere. Iniziative del genere esistono, ma sempre troppo poche a fronte del pressing tecnologico ed economico cui l'utente è sottoposto. Ad esempio, ci si chiede, come mai questo tipo di insegnamento non sia contemplato nel conseguimento di brevetti di patenti informatiche.
Quanto appena accennato sottintende il concetto che se da una parte è banalizzante reagire anacronisticamente al fenomeno dei social network con crociate o caccia alle streghe, d'altra parte è importante interrogarci su cosa l'umanità di questo ultimo mezzo secolo stia cercando e se affettivamente sia consapevole della sua ricerca. Le domande più importanti della collettività, storicamente parlando, sono sempre nate da una riflessione e da bisogni maturati nelle epoche precedenti, ed hanno avuto risposte, provvisorie, buone, cattive, comunque spesso tardivamente, rispetto alla data scritta nelle proprietà del programma: dove desidero andare. Il relativismo che è nato da un livello di autocoscienza dell'essere, superiore rispetto al passato (la sua struttura linguistica e dunque concettuale si è intensamente sviluppata), collide purtroppo pericolosamente sul "qui e subito", "sempre e comunque" e, dunque, con raggiungimento di beni "compensatori". L'uomo è un animale soprattutto comunicativo, che ha imparato a declinarsi attraverso la comunicazione e, dicevamo qualche post fa, a prendere anche distanza dall'esclusivo dominio istintuale proprio degli "altri" animali. Oggi egli comunica in modo diverso e con questa diversità bisogna fare i conti, comunque.
In un mio intervento del mio 2004, su “D CINEMA e DTT. La filiera cinematografica digitale dalla produzione alla visione. La Nuova Televisione”, tenuto presso l’UNSA (Palazzo UIL), sottolineavo insieme ad altri illustri ospiti, registi e sceneggiatori, come l’immaginario tecnologico si sia così velocemente arricchito di dimensioni che non hanno dato la sufficiente capacità di metabolizzazione del fenomeno all'utente e alle stesse istituzioni, tuttavia ponendo problematiche che vanno oltre a quella della manipolazione dell’immagine, e della protezione del copyright. Stiamo, di fatto, ponendo l’accento sul fatto che la rivoluzione culturale in atto in questo campo e, più in generale, nell’ambito della riflessione sulla scienza ed i suoi mezzi, non è separabile da quello che potrebbe stare per accadere nelle nostre menti e nei suoi modelli di realtà. Non si tratta solo dei prodotti che la tecnologia digitale permette, ma dello stesso processo di distribuzione che ne diffonde l’utilizzo.
La realtà “virtuale”, è sempre esistita, giacché l’immaginale della cultura si è nutrito dei sogni dell’individuo, come dei gruppi, delle loro aspirazioni e fantasie, lo ha realizzato attraverso le immagini oniriche, i misteri dionisiaci, i sogni dell’arte, come per mezzo della stimolazione delle droghe. Ma qui deve essere posto un distinguo fondamentale: il fatto che un partecipante ad un hypnodrama, ad esempio, visualizzi nella trance ipnotica qualcosa che effettivamente non c’è di fronte a lui e reagisca in termini d’assoluta fedeltà agli stimoli “virtuali” che riceve, può davvero essere paragonato alle illusioni di un gioco in 3D, dove il partecipante è immerso con cuffia occhiali, casco, e calato in una seconda pelle multisensoriale interattiva? Nel 1996, il sociologo francese Jean Baudrillard (Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, 1996) ha definito il furto della realtà -la tendenza della realtà a sparire davanti ai nostri occhi- “il crimine perfetto”; infatti la mente moderna, tecnologizzata, non si limiterebbe ad accettare la realtà virtuale, ma arriverebbe in qualche modo a preferirla.

Nel passato, non vi era dunque il fascino della "virtualità" a farsi motore di comportamenti come oggi, certamente con una modalità meno esasperata, ma, se riflettiamo, sempre intensa. Come negare che essa vivesse nella produzione artistica che dipingeva la storia e le storie dell'umanità i suoi miti e sogni, aspirazioni e sconfitte. Una Madonna con il bambino di Raffaello ed ancora prima alcuni dipinti di Giotto (solo per fare alcuni esempi) rimandano ad un percetto che indagato riconosce, oltre la superficie materica del quadro, una profondità "al di là" del quadro e "al di qua" del quadro", non molto differente da quanto propone oggi il 3D. Un’iconografia appartenente al mondo dell'"oscuro", diabolico, iniziatico, proponeva e suggeriva con altrettanta forza di quanto oggi avviene (forse anche maggiore) attraverso un videogioco classificabile "violento". Ma ciò che differenzia i due meccanismi consiste nel fatto che, nella “virtualità” di oggi, il processore che lavora le immagini connettendole alla nostra rappresentazione delreale è nel sistema esterno che la produce (il software e l’apparato emittente), mentre nel passato era la stessa mente (analogica) dell’individuo a farle fare il “salto” verso la virtualità (processo onirico, processo creativo, condizione emotiva). La sensibilità dell’osservatore e meccanismi subconsci operavano comunque nella visione, anche se non indagati come oggi dall'attuale scienza dei segni e dei codici. Lo studio della produzione iconografica si è progressivamente articolato sino a individuare il dipinto non solo quale prodotto, ma anche processo, dove, ad esempio, il "movimento" può essere potenzialmente (virtualmente?) riconoscibile (Omar Calabrese). Nel passato vi era comunque la decisione di pochi, l'oligarchia di caste che, per emanazione divina od interesse politico, determinavano sensibilità, bisogni ed acquisti. Non è cambiato molto, anche se le etichette ai soggetti possono essere variate; quello che invece oggi potenzialmente l'umanità potrebbe utilizzare è la coscienza sulle proprie azioni e dunque sui destini possibili. Il genio può essere coltivato nelle generazioni, favorito dai mezzi tecnologici, utilizzato per il bene comune e se i suoi intenti sono "perversi", senza roghi, neutralizzato solo a volerlo veramente. Questo...in potenza; ma nel passato era tuttavia negato.

La psicologia del profondo ha avuto il grande merito di spostare il centro della ricerca dei valori sull'individuo e sulla collettività, ma non ha potuto affrancarci dalla nevrosi scientista e tecnologica che pretende di dare tutte le risposte su tutto all'uomo. In tal senso, l'individuo scienziato sposta i suoi intenti sul traguardo e perde il senso del suo percorso, del processo conoscitivo che parallelamente attiva in sé. E se questo non è meditato, è automaticamente perso. Parallelamente l’utilizzatore del progresso appetisce il prodotto, ma non s’interroga su quali bisogni quell'oggetto, quella comunicazione, quel contatto, stanno appagando. Nessuna scienza o tecnologia è "cattiva" di per sé, ma è sempre fondamentale il quesito da dove nasca e a cosa risponde.

Il prossimo 11 dicembre sarà in scena a Roma, presso la scuola di musica e multimediale VideoAmbiente la piece drammaterapica Blue Beard: To Want, To Need, To Be, inspirata alla famosa fiaba di J. Perrault. Lungo il percorso di allestimento della piece, della drammaturgia, come degli abiti di scena, è stato svolto un intenso lavoro di rielaborazione delle tematiche celate e edificabili nella stessa fiaba, attraverso una "relazione" intima degli interpreti con il proprio vissuto e quello dei compagni di lavoro. Persino gli abiti di scena, nell'ideazione del director, si sono ispirati a quanto andava ad essere processato nei vari laboratori: Mondrian, con le sue linee e, in questo caso pochi spazi delimitati da queste, ha suggerito un tocco postmoderno all’ambientazione, disegnando zone "segregate", in un bianco e nero che poco lasciano, se non indagato, alla comprensione della storia (quella di Gilles de Rais, di Barbablù, di Landru, ecc ecc.). Tutyto questo è definibile come "virtuale", ma si sposa immediatamente con gli aspetti rituali del fattuale. Proviamo ad esaminare...Pensando alla fiaba, possiamo davvero credere che la "curiosità" sia stata la causa di tutto? Nella piece, ad esempio, gli abiti dei Narratori, molti simili a quello delle Mogli Morte, scoprono spazi di pelle livida che rincorre le tonalità del destino cui andarono incontro. Le giacche dei quattro Barbablù saranno tassativamente nere, ravvivate da una cravatta di un forte rosso "sangue" a ostentare il perverso connubio tra lutto, sangue piacere nel sinistro personaggio. Tutti i personaggi scalzi, a terra nudi, almeno per quella minuscola superficie tanto importante sotto i piedi e potenzialmente eguali: persecutore, vittima, narratore, affini e, virtualmente, spettatori.

Quanto si sta descrivendo è stato intensamente "virtuale", mentre si lavorava con il processo drammaterapico, la storia di Barbablù; mentre era scritta e forzosamente estesa nelle descrizioni e redazione dei blog dell'Atelier, con il rimando a Gilles de Rais ed i suoi delitti, al suo processo e, soprattutto, attraverso il contributo di tutti gli attori. La "virtualità", dunque s'incontra, se vi è un processo a meditarla, con il reale.
Se un teatro può “spogliarsi” di quanto non essenziale, proprio nell’intento di comunicare più importante, sicuramente siamo inclini a considerare fenomeno regressivo quello Joseph Squier definisce una vera e propria "infatuazione tecnofila per gli strumenti" di comunicazione, che apparentemente la moltiplicano, ma rischiano di farne un uso solo stereotipato, scarsamente articolato e fondamentalmente funzionale. Si tratta di un problema alquanto datato ma tuttora attuale e riteniamo che, in questo senso ancora una volta l'arte, quale espressione privilegiata del bisogno di comunicare dell'umanità, con tutto l'impiego anche moderno dei suoi supporti espressivi, può aiutarci: valida la risposta di Bertold Brecht, secondo il quale, l'arte non è uno specchio con cui riflettere la realtà, ma un martello con cui darle forma.



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