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L’impermanenza di Anna Maria Basso

15/06/20

Il primo romanzo di Anna Maria Basso, poetessa e critico letterario

FotoL’impermanenza, edito da Manni, coniuga due ampi scontri: ciò che è tremore, provvisorietà, precarietà, senso del limite, malattia, dolore al dicibile che resta, si porge a ciò che si ama, alla vastità interminata e all’ascesa.
Dietro il senso oscuro dell’impermanenza, che è anche attraversamento, linea e basamento di bellezza, ciò che rimane racchiude il tema continuo dell’intimità e della relazione che si vivono attraverso il destarsi fenomenico della realtà, che è più di ciò che si comprende, si destina o si coglie.
E allora. all’interno di questo attraversamento, tutta la peculiare intimità dei protagonisti vive di questo segno indicibile, di questa ansia e allo stesso tempo sorpresa, percorsa da una guerra di salita e, contemporaneamente, di discesa in ciò che è fondo, primario ritratto, “sentire” acceso.
Tutta la storia del giornalista Pietro, che agisce in un continuo andirivieni di fughe e distanze, attraversamento di sé e degli altri, conosce e incarna la forza di ciò che sembra trascinare umano e parole, realtà e sua fissazione, in un abbandono, in una radicale e difficile tensione affettiva, in un senso del tempo che è percorso dal respiro e dal suo spezzarsi, dalla sua arsi conoscitiva e, allo stesso tempo, dalla lievità profonda dei gesti, delle situazioni, degli accenni, delle ansie ripide e della dolcissima riscoperta.
Gli incontri, dal fotoreporter Rajan, che ha gli occhi intrisi di magia e percorrenza astrale, all’amore di Vivienne, fino alle linee di Corinne, si scrivono come a mezz’aria, al fiato sospeso, alla vita, che inevitabilmente, dispone il suo dramma e la sua gioiosa lucentezza.
Ci sono squarci intensi in questo romanzo, che merita di essere letto come una lunga traversata, che non afferiscono al sentimentale pre-romantico, ma che vengono letti in una dimensione di sproporzione, mai appesantita dal passo.
Nei territori che si intrecciano, quelli nepalesi e lombardi, si avverte una matrice comune, che è sì la provvisorietà, ma anche la capacità di visione, innervata attraverso le fenditure e le finiture di ritmo, che servono a cadenzare, a misurare il transito della realtà, attraverso la capacità di sorpresa e di invito: «E mentre ascolta il mare, riconosce la sua vita. Uno specchio d’acque mosse da ritorni e partenze. Il suo porto ideale. Perché una vita senza onde né vento, che vita è?».
O ancora: «A Katmandu, l’alba sollevava la coperta della notte schiarendo l’aria coi primi palpiti di luce», «Il tempo quella mattina era buono. Solo qualche nuvola indecisa stazionava pigramente intorno al sole, cercando di velarlo, prima di dissolversi nella distesa azzurra del cielo», «La città si svegliava al lento annuncio del nuovo giorno, coi suoi tetti imbiancati di neve. Sulle sponde e lungo i pontili, dove beccheggiavano i battelli in attesa di prendere il largo, le scarse precipitazioni notturne avevano lasciato appena una spolverata. Un tocco di biancore a contrasto coi colori smorti, regalati da un cielo grigio e nebbioso».
L’accenno lirico, irrorato di finitudine, compie anch’esso il suo percorso, non solo attraverso il preludio agli avvenimenti ma anche aprendo la dimensione più alta, che costringe l’impermanenza, la sua non-durata, il suo passaggio, la sua sparizione e, infine, la sua cessazione, a confrontarsi con l’infinito, il suo grido, la vita che chiede l’eternità.
Ma dinanzi al cuore che, leopardianamente, si «spaura», si avverte l’aspirazione al significato che tutto dispieghi e compia, alle proprie domande di felicità che costituiscono e rivestono la nudità del dolore, l’urgenza della strada, che abbisogna del sacrificio per riscoprirsi, tenere all’erta, proporre altezze che possano rivestire l’io di incontri, totalità, salvezza.
Nel romanzo di Anna Maria Basso, tutti i personaggi portano il segno lucido, e perciò sofferto, di questa tensione ultima, la cifra del luogo in cui vivono, cosicchè, ad esempio, anche le scalate dell’Everest rappresentano la profondità di un silenzio altissimo e naturale, che è indizio di bellezza, ma anche esigenza di compimento, come se l’aria portasse il timore e il tremore di una chiamata di distanze: «Quando guardiamo le stelle ci sembrano così vicine e tutte alla stessa distanza, tanto da pensare che c'è anche per loro una vita comune, uno stare insieme. Ma non è questa la realtà. Una dista dall'altra milioni di chilometri».
Lo sfondo del popolo nepalese, che lentamente compone il formarsi della propria consapevolezza e dei propri diritti, consente di soffermarsi ancora una volta sulla sua maturazione. È sfondo ma anche fondo della storia, in cui l’io dei personaggi è costretto, in qualche modo, a fare i conti, attraverso il discreto slancio delle proprie relazioni.
Ma se davvero ogni cosa esistente è impermanente (i rapporti, l’amore, l’amicizia, la vita stessa) e caduca, occorre, dunque, che l’aspirazione nostalgica dell’uomo verso l’infinito adempia tutta la sua portata e la sua pretesa, come grido di qualcosa che non finisca e si prolunghi.
Il romanzo mette in scena questa condizione. Tutto può succedere ancora, tutto accade, come l’essere, come gli occhi che incontrano le cose: «Quella mattina di maggio è limpida come un cristallo. Il sole di mezzogiorno la inonda di una luce incolore ma intensa dalla distesa azzurra del cielo, sgombro di nubi. Giunge a ondate un lieve venticello dalla costa e si insinua nella trama di strade, vicoli, campanili e case, raccolti sullo sperone che declina verso il mare. Tutto appare dipinto come un quadro. Sembra davvero un giorno più vivo, uno di quelli in cui tutto può succedere ancora».
Andrea Galgano



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