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Comunicato Stampa

La tutela del “Made in Italy” - Profili penali

10/02/15

Con la sentenza n. 3789 del 28 gennaio 2015 la Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi dei limiti di liceità all’utilizzo della dicitura “Made in Italy” sui prodotti industriali.

Tale argomento assume una notevole rilevanza in considerazione del fatto che la contraffazione dell’etichetta “Made in Italy” va ad incidere negativamente sull’economia nazionale, ed in particolar modo su quelle realtà aziendali che sopportano i costi di una produzione interamente allocata sul territorio nazionale per garantire ai consumatori l’acquisto di prodotti che rispecchino determinati standard qualitativi e di sicurezza.

La vicenda sottoposta al vaglio della Corte di Cassazione ha per oggetto l’apposizione, da parte di una impresa calzaturiera italiana, della stampigliatura “Made in Italy” a dei prodotti (nella fattispecie scarpe) di cui solamente una parte della produzione - e più precisamente quella relativa all’assemblaggio delle varie componenti – si è svolta in Romania.

La Suprema Corte, benché le restanti fasi della progettazione, confezionamento, finitura e commercializzazione si fossero svolte interamente in Italia, ha ugualmente ravvisato gli estremi per l’applicazione dell’art. 4, comma 49, l. n. 350/2003 che prevede l’applicazione delle sanzioni di cui all’art. 517 c.p., nel caso in cui sia apposta la stampigliatura “Made in Italy” sui prodotti e merci identificati dalla normativa europea sull’origine dei prodotti come “non originari dell’Italia”.

Tale normativa è racchiusa e contenuta nell’art. 24 del Regolamento CEE n. 2913 del 12 ottobre 2012, istitutivo del Codice Doganale Comunitario il quale prevede che ai fini della determinazione del Paese di origine di un prodotto vada considerato il Paese in cui è avvenuta l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale economicamente giustificata ed effettuata da un’impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo o abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione.

Sulla base di tali argomentazioni la Suprema Corte, richiamando orientamenti giurisprudenziali già percorsi in situazioni analoghe (Cass. Pen. Sez. III n. 225 del 27 gennaio 2012), ha quindi confermato la Sentenza emessa dalla Corte di Appello di Trieste e, per l’effetto, condannato gli imputati alla multa di Euro 4.000,00 per il reato di cui all’art. 517 c.p. che sanziona la condotta di “chiunque pone in vendita o mette altrimenti in circolazione opere dell’ingegno o prodotti industriali, con nomi, marchi o segni distintivi nazionali od esteri, atti ad indurre in inganno il compratore sull’origine, provenienza o qualità dell’opera o del prodotto”.

Il ragionamento seguito dalla Suprema Corte nella richiamata Sentenza origina dal principio secondo cui la fase della lavorazione compiuta all’estero (ossia la cucitura della tomaia) non può essere considerata in alcun caso un segmento del ciclo produttivo di trascurabile rilievo, poiché detta cucitura costituisce quella fase della lavorazione specificatamente destinata ad assicurare la robustezza della scarpa e a preservarne la durata, “in tal modo incidendo in modo decisivo su qualità generalmente ritenute di carattere essenziale in relazione al tipo di prodotto in esame”. Quindi, l’applicazione su tali prodotti dell’etichettatura “Made in Italy” deve pertanto ritenersi effettivamente tale da indurre in inganno l’acquirente circa l’origine, la provenienza e la qualità del prodotto: l’apposizione di tale dicitura induce inevitabilmente l’acquirente a ritenere che quel determinato prodotto sia interamente concepito e realizzato in territorio italiano da maestranze locali.

A nulla rilevano eventuali argomentazioni contrarie relative alla scarsa rilevanza della percentuale del segmento produttivo delocalizzato con riferimento all’interezza del processo produttivo. A tal riguardo si deve rilevare come di recente il legislatore abbia deciso di rendere ancora più rigorosa la tutela apprestata ai consumatori, con particolare attenzione a quei settori produttivi, come quello tessile e calzaturiero, per i quali la fabbricazione del prodotto all’interno del territorio nazionale costituisce garanzia di determinati standard qualitativi.

A riprova del consolidamento di tale orientamento, deve notarsi come l’art. 16 del D.L. n. 135/2009 (poi convertito nella Legge n. 166/2009) abbia imposto l’entrata in vigore di criteri ancora più stringenti di quelli fino ad allora previsti dal Codice Doganale Comunitario, stabilendo che diciture quali “Made in Italy”, “100% Italia” e similari, possano essere apposte ad un prodotto italiano, solo ed esclusivamente nelle ipotesi in cui tutte le fasi del processo produttivo (quali il disegno, la progettazione, la lavorazione ed il confezionamento) siano realizzate all’interno del territorio nazionale.

In conclusione, in assenza di una normativa condivisa a livello comunitario che garantisca ai beni prodotti interamente in Italia di mantenere un determinato livello di competitività rispetto alle produzioni provenienti da Paesi emergenti (i quali non sempre praticano una concorrenza leale), l’ambito di applicazione dell’art. 517 c.p. pare rappresentare un mero palliativo per quegli imprenditori che mantengono le proprie produzioni all’interno del territorio nazionale, i quali continuano a non vedere soddisfatte le proprie istanze di tutela.

In tal senso lo strumento penalistico a tutela del “Made in Italy” risponde, in maniera non sempre efficace, alla necessità di supplire alla carenza di politiche economiche e normative comunitarie poste a tutela dei prodotti “Made in”, misure che sarebbero realmente efficaci ma che nella prassi sono difficili e laboriose da attuare.

Va rilevato infine come la fattispecie in esame abbia degli importanti riflessi in termini di applicazione della disciplina prevista dal D.Lgs. 231/01. È noto infatti come la fattispecie prevista e punita dall’art. 517 c.p. (vendita di prodotti industriali con segni mendaci), sia stata inserita, già a far data dal 2009, all’interno del novero dei reati presupposto rilevanti ai fini dell’applicabilità della normativa sulla responsabilità amministrativa degli enti (art. 25-bis.1).

Ciò comporta per gli operatori economici, ed in particolar modo per quelli che decidono di delocalizzare parte delle proprie produzioni, la necessità di prevedere all’interno dei propri Modelli di Organizzazione, Gestione e Controllo, le misure più idonee al fine di prevenire la commissione del reato di cui all’art. 517 c.p., presidiando in particolare i processi produttivi (selezione delle materie prime, tecniche produttive, contrattualizzazione di eventuali terzisti).



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