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La violenza sessuale di gruppo e il concorso in violenza

29/05/14

La commissione di atti di violenza sessuale di gruppo si distingue dal concorso di persone nel reato di violenza sessuale, perché non è sufficiente, ai fini della sua configurabilità, l'accordo delle volontà dei compartecipi, ma è necessaria la simultanea effettiva presenza dei correi nel luogo e nel momento della consumazione del reato, in un rapporto causale inequivocabile.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 18901, depositata l'8 maggio 2014.
Il Tribunale di Perugia condannava 3 soggetti di nazionalità tunisina, per il reato di violenza sessuale di gruppo commessa ai danni di una donna italiana, e la Corte di Appello perugina confermava in toto la statuizione di prime cure. Avverso tale decisione gli imputati ricorrevano per Cassazione, deducendo plurimi motivi di gravame, tra cui: in primis, violazione dell'artt. 143, comma 1. c.p.p. e 111 Cost., sia per la omessa traduzione delle sentenze di merito in una lingua conosciuta dai ricorrenti, sia per la mancata assistenza durante il processo di merito di un interprete, nonostante la relativa richiesta avanzata in tal senso. Vengono poi dedotti vizi motivazionali con precipuo riferimento alla valorizzazione, da parte della Corte territoriale, delle dichiarazioni accusatorie della persona offesa, senza che le stesse fossero state sottoposte ad un vaglio maggiormente scrupoloso. Per ultimo, l'ulteriore censura difensiva è relativa alla qualificazione giuridica del reato contestato, sulla scorta del rilievo afferente la ritenuta responsabilità per la violenza sessuale di gruppo nonostante l'assenza di elementi da cui desumere che l'atto di violenza fosse stato concordato tra gli imputati o che, comunque, tutti fossero consapevoli di quanto avvenuto tra i coimputati e la persona offesa.
Per quanto riguarda i principi regolatori della traduzione degli atti e la nomina dell'interprete, con la sentenza de qua, la Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione ha avuto modo di riprendere e consolidare la maggioritaria giurisprudenza di legittimità in diverse tematiche di diritto sostanziale e processuale. Anzitutto, con riferimento alla dedotta violazione dell'art. 143 c.p.p., i Supremi Giudici hanno precisato come la sentenza non è compresa tra gli atti rispetto ai quali la legge processuale assicura all'imputato che non conosca la lingua italiana il diritto alla nomina di un interprete per la traduzione di essa in una lingua a lui conosciuta; in altri termini, è onere dell'imputato che non conosca la lingua italiana far eseguire, a propria cura, la traduzione del provvedimento. Per ciò che concerne, invece, l'ausilio di un interprete durante il processo, la Corte di legittimità ha chiarito che tale decisione spetta esclusivamente al giudice di merito, il quale dovrà verificare se l'imputato sia o meno in grado di comprendere adeguatamente la lingua italiana ed il significato degli atti compiuti; l'obbligo di nominare l'interprete è ristretto al solo caso della non conoscenza effettiva o della seria difficoltà di comprensione della lingua italiana e, comunque, siffatto accertamento da parte del giudice di merito non è censurabile in sede di legittimità se motivato in termini corretti ed esaustivi.
Quanto alla doglianza difensiva afferente la valutazione delle dichiarazioni della persona offesa quale principale elemento fondante la sentenza di condanna, la Corte Regolatrice ha avuto modo di chiarire come, per giurisprudenza ormai consolidata ed inequivocabile, la persona offesa può essere assunta come testimone e l'attendibilità che il giudice le riconosce non è censurabile in sede di legittimità, purché tale valutazione sia sorretta da una adeguata e coerente giustificazione che dia conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati. Donde, la valutazione della credibilità della persona offesa rappresenta una questione di fatto che, come tale, non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice di merito non sia incorso in manifeste contraddizioni.
Infine, quanto alla problematica afferente la corretta qualificazione giuridica del fatto, la Corte di Cassazione ha ritenuto fondato il relativo motivo di ricorso, annullando con rinvio la sentenza di condanna affinché la Corte di Appello motivi adeguatamente riguardo la ritenuta sussistenza di una violenza sessuale di gruppo e non di un mero concorso in violenza sessuale. In effetti, il Supremo Consesso ha chiarito come la commissione di atti di violenza sessuale di gruppo si distingue dal concorso di persone nel reato di violenza sessuale, perché non è sufficiente, ai fini della sua configurabilità, l'accordo delle volontà dei compartecipi, ma è necessaria la simultanea effettiva presenza dei correi nel luogo e nel momento della consumazione del reato, in un rapporto causale inequivocabile.



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