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Ambiente e natura – Disastri annunciati - Protezione civile e volontari.

25/01/17

La natura è quella in cui viviamo. L’ambiente è quello in cui viviamo, tutti i giorni, ciascuno di noi. La protezione civile dovrebbe essere pianificata in base alle caratteristiche del territorio, secondo i pericoli individuati e valutati, in strutture di azione interattive, di area più vasta dei singoli comuni, almeno per aree simili e non esclusivamente per il numero di persone potenzialmente coinvolte. Il danno ad una persona vale meno ed è più accettabile di quello a cento o mille? L’emergenza prevede sempre due fasi: una eroica immediata ed una successiva di stabilizzazione fino alla normalizzazione. Ogni attività di soccorso per i volontari riguarda esclusivamente la gente, chiunque e quanta essa sia. La carenza di pianificazione nei piani comunali – regionali di protezione civile, inficia l’efficacia degli interventi possibili, prolunga a sproposito la prima fase e tutti i rischi annessi e connessi affidando alle persone i carichi e le responsabilità delle soluzioni. Le normali, semplici, scontate, criticità operative.

FotoLa migliore risposta all’emergenza è evitare l’emergenza.
La protezione civile deve essere gestita a livello centrale e solo utilizzata a livello prima comunale poi provinciale poi regionale.
Il sindaco deve sapere chi chiamare ed avere risposte immediate e certe da parte di coordinamenti prociv, istituzioni, Asl Nas, Arpa, Enti tecnici, secondo i bisogni espressi. Non deve chiamarli uno ad uno.
I volontari formati sì ma soprattutto addestrati, sono rappresentati da personale disponibile! I mezzi devono essere equamente distribuiti e disponibili a richiesta, manutenuti ed efficienti.
Cosa che si ottiene solo con il coordinamento e l’addestramento continuo.
Ho in mente alcune criticità e non parlo della emergenza neve che è attuale ma della situazione più “normale” che si è verificata per esempio quest’anno, in agosto per il terremoto del centro Italia, ma anche prima all’Aquila, e prima per le alluvioni e gli esondamenti, e/o le frane o gli incendi che contraddistinguono periodicamente zone “vocate“ del territorio nazionale.
La natura è quella in cui viviamo. L’ambiente è quello in cui viviamo, tutti i giorni, ciascuno di noi.
La presa d’atto della probabilità di una emergenza si basa purtroppo sul senno di poi e tutti imparano a prenderne atto per il cancan mediatico, la cronaca, possibilmente nera od eroica che si sviluppa nelle tragedie. E poi dimenticano, non i volontari ma le istituzioni.
Ma non c’è tragedia se non ci sono vittime?
I piani comunali esistenti o previsti delle aree metropolitane non possono essere uguali e sovrapponibili, pedissequamente, a quelli delle aree non metropolitane, a quelli delle aree montane contraddistinte da piccoli comuni con pochi abitanti molte frazioni e situazioni geologiche ed ambientali decisamente, più “naturalmente” insidiose e pericolose.
In queste aree sono coinvolte normalmente meno persone dunque il rischio ricavato dagli algoritmi di valutazione è inferiore. Ma il danno ad una persona vale meno ed è più accettabile di quello a cento o mille?
La protezione civile dovrebbe essere pianificata ed organizzata in base alle caratteristiche del territorio, almeno per aree vaste o simili e non esclusivamente per il numero di persone potenzialmente coinvolte in aree ristrette o limitate e ricche di servizi.
Operativamente occorrerebbe accorpare i piccoli comuni secondo i pericoli individuati e valutati in strutture di azione, interattive, di area più vasta.
Premesso questo mi riferisco ad alcune criticità che ho affrontato e verificato spesso, operando sempre con persone di altissima qualità, capacità, volontà e disponibilità ad affrontarle.
Sono i volontari che si trovano ad operare nel soccorso della prima fase ma ancora a servizio durante l’emergenza e poi, ancora e sempre, della gente coinvolta; esclusivamente della gente, chiunque e quanta essa sia, sfollati, volontari operativi, forze dell’ordine, personale dei comuni. Di chi ha bisogno di loro di quello che sanno e possono fare.
Ogni attività di soccorso in emergenza prevede uno sviluppo in almeno due fasi: una eroica ed una successiva di stabilizzazione fino alla normalizzazione.
Collaborazione e sinergia risolvono i problemi che la prima fase di intervento non può e soprattutto non dovrebbe affrontare.
La mancanza di questa pianificazione nei piani comunali – regionali di protezione civile, inficia l’efficacia degli interventi possibili, complica e prolunga a sproposito la prima fase e tutti i rischi annessi e connessi, affidando alle singole persone i carichi e le responsabilità delle soluzioni.
Immaginate un campo di accoglienza: allestito in fretta e furia per riparare, e soccorrere, mettere in sicurezza le persone.
Un’accozzaglia di mezzi, macchine, camion, mezzi d’opera, volontari di ogni specializzazione e provenienza, caos nelle strutture comunali, spazi risicati, containers di materiali, tende che nascono come funghi e che si ergono su spiazzi fangosi bonificati sotto il sole battente o nella pioggia, o nella neve. Alcuni non adatti.
Occorre fornire sicurezza operativa e aree di ristoro, di sosta, relax, di conforto, di recupero della umanità e della calma necessarie a tutti, vittime e soccorritori. Generalmente sono tensostrutture, collegate a cucine da campo e box di servizi igienici in cui avviene tutto questo. Mangiare, stare al coperto, stare al caldo in sicurezza questa è la prima opzione di servizio in un intervento di soccorso in emergenza. Occorre montarle e fissarle queste strutture, dotarle di impianti, elettrici, idraulici, di acqua e rifornimenti.
Si organizza la mensa.
Pensate ai servizi igienici, docce - wc: non possono essere tantissimi; se un centinaio di persone stanche e sporche usano queste strutture e queste non vengono mantenute pulite e curate, cosa può succedere dopo qualche giorno? Se non sono stati predisposti immediatamente, siano in piazzali polverosi o fangosi o nella neve, i sistemi di alimentazione e scarico o questi non risultano efficaci o possibili per questioni logistiche? Occorre trovare una soluzione.
La cucina da campo: per un paio di giorni o tre vanno bene scatolami e conservati ma prestissimo soprattutto se è freddo, occorre passare a cucinare veramente. Le cucine sono impianti tecnologici complessi, sono gestiti da cuochi volontari disponibili e spesso veramente capaci di far fronte senza grandi difficoltà alle necessità di cinquanta, cento pasti ripetuti ma poi questi devono essere articolati: per colazione pranzo e cena, per fare i cestini di supporto, per rendere disponibili caffè e bevande e quanto servirà. E molto spesso i pasti da preparare sono molti, molti di più.
Occorre avere accesso a rifornimenti di qualità omogenea ed in quantità compatibili con le esigenze. Non si può fare semplice ricorso a containers che provengono direttamente dalle donazioni e contengono dieci tipi di pasta di qualità differente con differenti tempi di cottura per esempio, oppure valanghe di biscotti e niente tonno. Spesso bisogna anche frugare fra quaderni, vestiti, giocattoli saponette e detergenti, assorbenti intimi etc,etc.
Le donazioni se non sono quelle di grandi aziende e ben differenziate, prima di essere inviate ai campi vanno selezionate differenziate, catalogate, oppure tanto vale che le raccolte arrivino direttamente ai sindaci per la distribuzione diretta. Occorrono carne e verdure e frutta. Occorre pianificare i centri di acquisto che rispondano ai requisiti. Possibilmente nei pressi delle aree di previsto insediamento dei campi stessi o comunque grandi centri di acquisto unificato, convenzionati, che garantiscono qualità e quantità delle forniture e anche prezzi di acquisto accettabili.
Invece viene affidato al sindaco di turno il compito di provvedere ed egli se in buona fede, probabilmente si affida a uno o più negozi conosciuti o anche supermercati che oltre a non essere all’altezza, presto non esiteranno ad approfittarsi della situazione. La sventura di tanti risulta essere anche la fortuna di pochi. Difficoltà, sprechi e malagestione sono il prezzo corrente di queste mancanze.
Ad una cucina da campo occorrono quantità e qualità omogenea e tracciabilità dei prodotti.
Una contaminazione alimentare che coinvolge un ristorante o una trattoria in tempi normali è certamente una brutta cosa ma se coinvolge una mensa di emergenza nelle condizioni di operatività, allora una rovina si aggiunge ad una catastrofe. Pensate ai volontari ed alla gente, col semplice mal di pancia.
Una squadra di cucina deve operare come un gruppo coeso, addestrato a quella collaborazione che si crea in un gruppo affiatato in cui ciascuno assume il ruolo necessario. Occorre efficienza ma soprattutto efficacia. I volontari sono così: ognuno fa quel che deve e come può, al suo meglio. Non occorre ci sia uno chef stellato, occorrono invece almeno dieci persone e sono poche, per una squadra competente, comprensiva di idraulico ed elettricista. Un cuoco capace, un aiuto capace, quattro persone per preparare, tagliare, sporzionare, servire, lavare il pentolame; due per la sala e le attività extra, il magazzino i rapporti, la movimentazione, due per i servizi; e tutti devono pulire prima durante e dopo ogni pasto. In allegria perché la gente cui è rivolto il servizio soffre, la gente per cui sono lì ha problemi veri. Raddoppia l’esigenza? Raddoppia la squadra. Non cambia il risultato.
Per ottenere tutto ciò occorrono addestramento e procedure semplici ma rigorose: HACCP un acronimo che significa individuazione e controllo dei punti critici, quelli controllando i quali il rischio si può evitare non quelli dove il rischio si manifesta.
Controllo e gestione dei magazzini del campo, delle scadenze e degli ordini di acquisto che devono essere pianificati e coordinati per almeno due giorni a venire, interventi urgenti ed immediati ma non approssimativi sui sistemi elettrici ed idraulici, e poi prodotti e metodi pulizia.
Addestramento, Collaborazione e Sinergia tra tutti gli attori e possibilmente riduzione della asfissiante burocrazia del sistema attuale, sistema per cui tutti vogliono prevalere come se avessero la ricetta del successo in tasca o la soluzione nel database; sistema nel quale tutti vogliono i meriti ma nessuno la responsabilità.
I volontari sono solo l’ultima ruota del carro. Sono e si mettono al servizio delle istituzioni ma non sono muli dell’esercito, non sono soldati che tacciono ed obbediscono, non sono solo eroica forza da lavoro. Nessuno li obbliga né ad andare e neppure a restare se non la solidarietà verso la gente che soffre ed ha problemi. Sono persone normali, a volte anche di successo e con grandi capacità professionali che dedicano tempo e denaro, il loro e quello di chi di buon grado, permette loro di partecipare assentandosi dal lavoro, per non parlare della fatica fisica e dello stress tanto caro alle istituzioni e lo fanno per un unico motivo: perché credono sia giusto farlo.
Antonio Balzani



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