A proposito del Terrorismo
Una bella testimonianza.
PERCHE' GIUSEPPE BIASCO EX -SEGRETARIO REGIONALE DELLA UIL HA SCRITTO QUESTO ARTICOLO?
L'ARTICOLO E' UNA “BELLA “ TESTIMONIANZA CHE NOI TUTTI APPREZZIAMO.
Una storia non raccontata, è una storia che non è mai avvenuta! Una storia perduta.
La necessità di raccontare quanto è avvenuto in quegli anni terribili ad uno dei tanti inconsapevoli protagonisti, nasce dal fatto che gli unici racconti di quegli anni, sono stati fatti dal punto di vista dei terroristi, che pentiti e scarcerati, hanno cominciato a scrivere le loro storie. Le vittime non hanno potuto, i morti non ricordano. Cominciano ad uscire alcuni libri scritti dai figli delle vittime, alcuni molto belli ed a tratti struggenti, come quello di Benedetta Tobagi. Purtroppo, anche le ricostruzioni più puntuali, non possono sostituire le testimonianze, che mancano. Cominciano ad uscire dei film su i terroristi, mentre è sempre difficile, raccontare la vita quotidiana. La storia vera delle lotte, dei sacrifici e dei tormenti di una generazione intera è fatta di continui atti quotidiani, che spesso non appaiono eroici, non possono appagare la fantasia, non sono intriganti, non affascinano. Vale la pena, allora, cominciare a raccontare le proprie piccole storie, quelle che nessuno ti chiede di raccontare. Sono le storie di tutti, di quella collettività in movimento, che a discapito delle tremende vicende in cui è stata costretta a vivere, in cui vive ancora oggi,costruisce ogni giorno il destino del nostro paese.
UNA STORIA PERDUTA.
di Giuseppe Biasco
Era proprio una splendida giornata di maggio. Il sole era caldo e l’aria dolce, in quella Domenica mattina. Eravamo come dei turisti, con mia moglie ci stavamo riprendendo la nostra città, in quello scorcio di primavera del 1995. La manifestazione “ Maggio dei Monumenti”, ci consentiva di passeggiare, con nostro grande piacere, per il centro storico insieme alle nostre ragazze e visitare con loro dei monumenti che da molto tempo non erano aperti al pubblico. Eravamo arrivati a Piazza San Domenico. Avevamo intenzione di far vedere alle nostre figlie, la splendida pala d’altare del Caravaggio che era di nuovo visitabile nella basilica domenicana. Ero fermo davanti all’edicola che stava ad uno degli angoli della piazza, proprio di fronte alla famosa pasticceria di Scaturchio, dove pensavamo di fermarci dopo la visita alla chiesa, per comprare le sue famose sfogliatelle. C’era folla e molta agitazione in quella parte della piazza. Infatti, oltre al giornalaio, nel palazzo affianco alla pasticceria, c’era il comitato elettorale di un candidato alle elezioni regionali che si sarebbero svolte di li a qualche settimana. Il candidato era molto conosciuto, perché era un ex sacerdote già eletto nella precedente consiliatura regionale, nelle liste del PCI. L’ex frate, si era molto occupato delle carceri e dei problemi degli ex reclusi e del loro reinserimento sociale. Stavo comprando i giornali, con mia figlia più piccola che stava scegliendo un suo giornalino; mentre, mia moglie e l’altra figlia, si erano fermate a guardare le vetrine di un negozio di abbigliamento. Fu allora che sentii la sua voce. Quella voce, alle mie spalle, mi fece serrare la gola, mentre avvertivo di colpo, il gelo che mi attraversava la schiena. Riaffiorò di colpo il ricordo di quella paura, sepolta nella coscienza, ma mai più dimenticata. Quella voce, aveva lo stesso tono della prima volta, quando
l’avevo sentita al telefono nella piccola stanza del Consiglio di Fabbrica dell’Alfasud di Pomigliano d’Arco: “Come stai, Peppino?” Non mi girai subito, quella voce, mi aveva riportato a ben 13 anni prima, all’Inverno del 1982. L’anno in cui si sarebbe chiusa la lunga vertenza iniziata nel 1981, che tra contratto integrativo e ristrutturazione del gruppo Alfa Romeo, la delegazione sindacale fu impegnata in una lunga e difficile vertenza. Il Febbraio di quell’anno fu particolarmente difficile e duro per me. Ero coinvolto come responsabile sindacale in quella vertenza tanto complessa, quanto difficile. Fu la prima volta, in cui il sindacato unitario dei metalmeccanici, dovette misurarsi con degli esuberi strutturali e contrattare cassa integrazione,riconversione degli impianti e ristrutturazione dei cicli produttivi. Per la prima volta dal 1968, non si trattava di ottenere qualcosa, ma bisognava cedere delle posizioni, per mantenere decine di migliaia di posti di lavoro ed interi stabilimenti. Il rischio concreto era quello che il marchio Alfa, potesse scomparire dalla scena automobilistica internazionale. Quella vertenza si era sviluppata, subito dopo, la grande manifestazione dei 40.000 a Torino, in cui quadri e dipendenti della Fiat, avevano dimostrato alla opinione pubblica che erano contro il blocco dello stabilimento effettuato dal Consiglio di Fabbrica e che un certo modo di fare sindacato era definitivamente finito. Si apriva la stagione della produttività e del mercato globale. Nel pieno di quelle contraddizioni, vivevo con le mie solite difficoltà economiche. Solo da poco era veramente finita l’emergenza del terremoto del 1980, durante il quale mia moglie aveva perso la supplenza annuale che si era guadagnata con tanta fatica. In quel febbraio, aspettavamo la nostra seconda figlia, ed io non vedevo l’ora che finissero le interminabili riunioni al sindacato per tornare a casa, Mia moglie era stata molto male, dovette stare per molti mesi a letto per portare a termine quella gravidanza.
Erano gli anni del terrorismo più crudele e spietato. Il paese viveva sotto una cappa fatta di paura, ansia per il futuro ed impotenza. Nulla sembrava arrestare il lungo ed inesorabile stillicidio di assassini di cittadini inermi, che eravamo costretti a registrare con periodica puntualità.
Mi girai con molta calma, lo vidi e non avevo bisogno di riconoscerlo, lo conoscevo troppo bene: “ Ti ho visto da lontano, non ho resistito , volevo salutarti.” Mi disse, tra l’imbarazzato e il preoccupato. “E troppo importante per me, in carcere eri il mio pensiero fisso. Lo sai, tu sei l’assassinio che non ho commesso!” Ebbi la sensazione, che si fosse liberato da un peso che si portava dentro da troppo tempo. Con la gola serrata e le labbra secche, avrei voluto parlare, chiedergli tante cose, ma non riuscii a dire nulla.
“Sono stato fortunato a non fare quello che era stato deciso! Oggi non avrei sopportato di doverti portare sulla coscienza. Sono contento di vederti. Sono stato liberato da poco e speravo di incontrarti, avevo bisogno di stare in pace con me stesso.” Mi allungò la mano, che strinsi più per istinto che per convinzione. “Buona fortuna”, mi disse mentre si allontanava con un sorriso indefinibile. Non ero riuscito a dire una parola, di fronte a quella dichiarazione improvvisa e sconvolgente. Non c’è nulla di peggio, che sapere in maniera esplicita, quello che si sa da sempre e che si ha paura di conoscere. Poteva succedere anche a me, quello che era successo a tanti altri, diventare la vittima di una guerra che non avevamo dichiarato e che non volevamo combattere. A quel tempo, avevo soli 32 anni.
Raffaele, quello era il suo nome, era uno tra i migliori operai delle Manutenzioni , delegato nel Consiglio di fabbrica dell’Alfasud, passato al movimento di “Autonomia Operaia”verso la fine degli anni 70. Fu in quel periodo, che, insieme a Bruno, un delegato degli impiegati dell’amministrazione, esperto di karatè, era stato reclutato nella formazione terroristica di “Prima Linea”. Alcuni esponenti di quella temibile e spietata formazione, si erano insediati in provincia di Napoli, a seguito del terremoto e del sequestro Cirillo. Era loro intenzione organizzare attentati ed azioni dimostrative, cercando di suscitare nei gruppi di disoccupati e negli operai delle fabbriche in crisi quel consenso e quelle azioni di lotta necessari alle loro deliranti strategie.
Dovevano avere un covo tra Acerra e Pomigliano, godendo, forse, anche della protezione della camorra locale,con la quale i terroristi avevano rapporti.
La voce di Raffaele, era quella che mi telefonava, minacciandomi, mentre ero nella sede del sindacato in fabbrica. Non le dimenticherò mai quelle telefonate! Quando arrivavo al telefono e rispondevo pronto, capivo subito che erano loro. Un silenzio iniziale, seguito dalle parole: Traditore farai la fine di tutti i nemici di classe, viva la lotta dei proletari combattenti, viva la lotta armata!”
Tutti coloro che erano impegnati nella trattativa Alfa Romeo, erano a rischio, sia che fossero del sindacato che rappresentanti dell’azienda. Non avevamo molte contromisure da opporre a quella follia, restavamo, ogni giorno, sorpresi, atterriti e sconvolti dalle notizie che ci arrivavano mentre stavamo lavorando a quella lunga e complessa trattativa. Eravamo riuniti come coordinamento sindacale dell’Alfa, quando ci fu comunicato che era stato ucciso Walter Tobagi. Eravamo in fabbrica quando arrivavano le notizie delle uccisioni di Pino Amato e di Delcogliano, ambedue Assessori regionali al Lavoro, uno, successore dell’altro. Quella voce che mi minacciava, mi faceva capire che ero in pericolo. Parlai poco di quello che mi succedeva, solo alcuni dirigenti del sindacato sapevano. Poco si poteva fare. Ero convinto che la strategia dei terroristi, con quelle minacce, era quella di riuscire a determinare in qualche modo la trattativa tra sindacato ed azienda. Solo dopo la firma dell’accordo, la mia vita sarebbe stata veramente in pericolo, perchè i terroristi avrebbero potuto fa scattare la vendetta del proletariato. Partecipai con una enorme fatica a quella trattativa, nella quale, insieme agli altri strappavamo, giorno dopo giorno, reparto dopo reparto, interi gruppi di operai dalla cassa integrazione strutturale. Contrattavamo la diminuzione degli addetti, la ristrutturazione del ciclo produttivo e la ripresa di efficienza dello stabilimento, condizione senza la quale l’intera fabbrica sarebbe stata chiusa nel giro di poco tempo. Firmai quell’accordo insieme a tutta la delegazione sindacale. Quando tornammo in fabbrica per le assemblee, era in atto una rivolta contro quella intesa. Furono giorni difficili, era impossibile parlare con gli operai che si sentivano venduti e perduti. Eravamo i loro odiati nemici, quelli che li avevano traditi facendogli perdere il posto di lavoro. Mi avvertirono, che un gruppo del reparto “Finizione”, mi cercava per picchiarmi, mentre altri volevano sequestrarmi nella sede del consiglio di Fabbrica per ottenere che i loro nomi non fossero inseriti nell’elenco dei cassa integrati. Per tutti ero tra i principali responsabili di quel disastro e quindi dovevo pagarne le conseguenza. Non potei essere nemmeno presente in assemblea generale, che fu particolarmente tempestosa. In quei giorni, seppi in seguito, che la mia vita era stata veramente in pericolo.
“Papà, mi fai male alla mano!” mi disse mia figlia. Era vero, senza accorgermi, avevo stretto tanto forte la mano della mia piccola, tanto da farle male. Pensai, che se Raffaele avesse messo in atto il proposito di quel gruppo di terroristi, mia figlia non avrebbe mai conosciuto suo padre, perché mentre avvenivano quelle vicende così complesse e tanto poco conosciute, lei non era ancora nata.
“Come sei pallido, che cosa è successo?” chiese mia moglie quando ci raggiunse in piazza. Quando gli dissi chi avevo incontrato capì subito e si spaventò. La tranquillizzai e riprendemmo il cammino verso l’ingresso della Chiesa. Ma la giornata non fu più la stessa. Da allora, ho sempre avuto la sensazione di essere un sopravvissuto.