ARTE E CULTURA
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Arte: l'ultima cena e' l'unica acquaforte eseguita da Rubens

Giovanni Battista De Andreis, artista sperimentatore e studioso di tecniche calcografiche, analizza storia e tecnica dell’incisione derivata dal Cenacolo di Leonardo per una circostanziata e attendibile attribuzione al celebre maestro di Anversa.

Gilberto Di BenedettoSe ne conosceva l’esistenza da sempre, da quando si è cominciato a
scrivere di Rubens come incisore e più importante diffusore di questa
particolare tecnica d’arte.
“Gli amatori hanno cercata avidamente la stampa rappresentante il
famoso Cenacolo di Leonardo da Vinci” così la presenta il Ferrario nel
suo Le classiche stampe dal cominciamento della calcografia, del 1836.
Ogni trattato ne parla, a partire dal Settecento, primo fra tutti il
Mariette, assieme alle due uniche acqueforti concordemente attribuite
al Maestro fiammingo: la Santa Caterina d’Alessandria e la Vecchia
della candela.
La notizia: L’ultima cena, una tra le più ricercate incisioni di
Rubens, è recentemente riapparsa presso un professionista Romano, il
dottor Gilberto di Benedetto (psicologo e psicoterapeuta).
Certamente un omaggio importante per il celebre e sfortunato Cenacolo
dipinto da Leonardo sul finire del Quattrocento per il refettorio di
Santa Maria delle Grazie in Milano.
Un bulino che per le dimensioni insolite (mm 996 x 298 al bisello) è
stato realizzato su due matrici congiunte: procedimento non certo
consueto all’epoca, dovuto probabilmente alla difficoltà di produrre o
incidere matrici in rame di dimensioni così ragguardevoli.
Tanto per l’esecuzione quanto per la storia che l’accompagna il
recente rinvenimento merita più di una riflessione o di una expertise
sbrigativa. La tradizione è unanime nell’attribuire l’incisione alla
mano di Soutman, peintre-graveur allievo di Rubens e cresciuto alla
sua bottega.
L’autenticità della stampa è garantita dalla tiratura coeva, in primo
stato, impressa su carte con filigrane di Leida, in ottimo stato di
conservazione. Le matrici originali sono tuttora conservate presso lo
Stedekijk Prentenkabinet di Anversa.
Le scritte della legenda sottostante, chiare ma non senza enigmi,
impongono qualche considerazione non inutile.
A sinistra, fatto il dovuto riferimento a Leonardo (Pinxit) si legge
P. P. Rub. Delin. (disegnò). Manca del tutto l’indicazione solita
dell’incisore esecutore, accanto al termine excudit . Perché?
Dopo il termine invenit, (quì sostituito da pinxit, l’autore dell’
originale) il termine delineavit indica l’autore del disegno
esecutivo, in questo caso Rubens.
A rigore dobbiamo dedurre che Rubens disegnò - di questo possiamo
stare certi, scrupoloso com’era - ma che nessuno eseguì (sculpsit o
excudit). Com’è possibile? Le ipotesi non sono poche: l’impossibilità
di menzionarlo, che l’artista non l’abbia ritenuto pertinente o
necessario, che non era semplice stabilirlo o perché, semplicemente,
gli incisori erano due.
Da notare che l’acquaforte, a differenza del bulino che viene inciso,
in effetti viene “disegnata”. Forse in questo il senso di quel
delineavit, che nel presente contesto assumerebbe un significato
particolare: l’autore del disegno potrebbe coincidere con l’autore
dell’acquaforte?
La Pinacoteca Repossi di Chiari (Brescia) possiede un foglio similare
a questo, non coevo però e sprovvisto di filigrana dove curiosamente
si legge, nella specifica della Collezione: “Il nome dell’incisore è
stato sostituito da quello del disegnatore”. Una ammissione incauta
che non fa che ravvivare gli interrogativi appena esposti. Curioso
anche - sempre a proposito di questo lavoro e prassi generalizzata -
come gli studiosi parlino indifferentemente ora di acquaforte ora di
bulino, mai accennando ad una tecnica composta o comunque menzionando
le due tecniche.

Un po’ di storia, intanto.
Disceso in Italia, come ogni buon nordico che intendesse temperarsi
nella cultura italiana, certamente impressionato dalla Cena di
Leonardo, Rubens non avrebbe esitato a copiarla. E’ quanto
è sempre stato scritto. Ipotesi suffragata, nel caso, dall’unico
disegno esistente del maestro riferibile a un particolare della Cena,
conservato nella collezione Devonshire a Chatsworth, con ogni
probabilità databile tra il 1600 e il 1612 (J.S.Held, L.Burchard, R.A.
d’Ulst).
L’interrogativo se il disegno esecutivo finale abbia invece altra
provenienza viene dall’esistenza di una copia del Cenacolo vinciano -
singolare per l’orizzontalità del formato e la totale assenza di
spazio prospettico - dovuta ad allievi di Leonardo (Boltraffio o Marco
d’Oggiono ) e conservata alla Royal Academy di Londra (ipotesi E.
Moeller del 1952).
Neppure da trascurare, come ulteriore possibile spunto iconografico,
una copia della Cena di imponenti dimensioni esistente già nel 1545
nell’abbazia di Tongerloo, a qualche decina di chilometri da Anversa
(A. e P. Philippot nel 1967-68).
Sempre in tema di un iter creativo che non può che avvalorare
l’importanza data dal Fiammingo a questo lavoro, esiste un disegno, al
Gabinetto dei Disegni del Louvre, assai curioso ed eloquente. Sono
rappresentate in controparte le sole figure del Cristo e dell’apostolo
Simone: un particolare di un eventuale prototipo esecutivo? Il foglio
si impone per una peculiarità non indifferente: se da un lato vi
appaiono particolari identici all’incisione, dall’altro la posizione
delle mani rispetta quella di Leonardo, soprattutto quella a sinistra
nella stampa.
Se il disegno fosse derivato dall’incisione le mani non potrebbero che
riprendere quelle dell’incisione e non certo tornare al modello di
Leonardo. Ma la comparsa del tendaggio, così come il calice e il pane
davanti a Cristo, richiamano perfettamente la stampa, per cui,
soltanto considerandolo uno studio creativo intermedio (un occhio
ancora a Leonardo e un altro teso a modificare) si può legittimarne
l’origine non di riporto ma creativa: la mano di Rubens o di chi per
lui.

Per cui, nonostante questa Cena incisa pretenda presentarsi come
fedele copia nella legenda sottostante - referenza non da poco per il
suo successo - l’occhio di oggi non può che coglierne lo spirito di
libero d’après, ricco di vistose ablazioni. Ambiente prospettiva e
oggetti sono scomparsi, ad eccezione del pane e del calice. In
aggiunta, l’esuberante Rubens ha innalzato alle spalle del Cristo il
vistoso panneggio piramidale appena menzionato che, mentre evidenzia
la maestà del Maestro, crea un trasfigurante moto ascensionale su
tutta l’orizzontalità della scena. Libertà espressive che non lasciano
dubbi sulla disinvoltura toccata al capolavoro vinciano.
Creativa dissacrazione che aggiunta all’incuranza di presentarsi
invertita (speculare) rispetto all’originale conferma la tensione del
Fiammingo di avvalersene più per una propria rappresentazione che per
diffonderne l’icona originaria. Una anomalia che è bene non trascurare
perché mai attuata da Rubens per nessuna trasposizione in stampa delle
sue numerose opere di pittura. Trasgressione legittimata forse
dall’opportunità che, standogli sott’occhio la perfezione del suo
prototipo, egli stesso abbia temuto di indebolirla rovesciandola, per
non dire affidarne ad altri il rischio. Un Leonardo alla rovescia per
cui, a tutto vantaggio dell’energia del foglio, che dice quanto
l’Artista tenesse a questo lavoro, vivendolo come un vero e proprio
furto creativo.
Non poco, per l’artista trentenne che si rivelerà il maggiore
“imprenditore” della storia dell’arte: fregiarsi d’un colpo della
grande tradizione rinascimentale con un trait d’union degno di un vero
protagonista.

Da tali premesse, considerato il prestigio del lavoro, può essere
verosimile che Rubens abbia saputo trattenersi dall’intervenire
direttamente sulla matrice?
Una occhiata non superficiale convince della assoluta armonia
dell’insieme: incastri perfetti di luci e ombre, un controllo del
segno sempre di ammirevole perfezione: assolutamente convincente nei
panneggi e di massima espressività nei volti: sempre inventato e
articolato nella raffinata tornitura
delle mani dei tredici personaggi. Tutto con sintesi da maestro. Dove
sarebbe improprio cercare il pathos distintivo del Rubens maturo, quei
viluppi di energia che lo fanno unico. Piuttosto risulta palpabile una
certa sospesa atmosfera di attesa che riporta, per equilibrio e
compiutezza, a quel capolavoro giovanile di fascinante bellezza che è
la tela “Romolo e Remo” della Pinacoteca Capitolina di Roma, dipinta
ad Anversa nel 1616.
L’attribuzione a Pieter Claesz Soutman - così come quella più
difficilmente sostenibile a Vosterman, di recente avanzata da De
Liberis - merita qualche riflessione. Intanto la curiosa, non
trascurabile coincidenza che un foglio importante del Soutman, La
Caccia al cinghiale, risulta inciso su due matrici, esattamente come
il nostro soggetto. Tecnicamente E’ sempre presente in Soutman (come
ha rilevato con acutezza L. Leeber) un puntinato fine, a volte
circonflesso, per accompagnare il volume dei corpi e dare rilievo agli
incarnati nei passaggi di maggiore finezza; procedimento tipicamente
pittorico di possibile suggerimento (o suggestione) rubensiano.
Mancano comunque prove certe, nonostante il Soutman fosse pittore e
incisore, di una collaborazione ristretta tra lui e Rubens nell’ambito
dell’incisione. Ciò che sposterebbe questa attribuzione ad altri
incisori: Cornelis Galle il Vecchio (conosciuto da Rubens in Italia),
Boetius Adamsz Bolswert, Willem Isaac Swanenburgh e qualche altro, o
confermare l’incisore eccellente dell’atelier Rubens, Lucas Vosterman.
Evidente, consentendo quest’ultima attribuzione, che la data verrebbe
dilatata dal 1610 al 1620.

Ma in quale ottica il Maestro vedeva il rapporto con i suoi
collaboratori? Una solidale vicinanza è certa, ma lo è ancor più la
puntigliosa accuratezza che egli pretendeva nella fase di riproduzione
di prototipi che egli stesso era solito portare alla perfezione. E’
certamente la causa dei ruvidi, avventurosi contrasti emersi con
Vosterman (troppa albasìa, a detta di Rubens), unanimemente
considerato il suo intagliatore di maggior talento, ma il cui rapporto
con il Maestro, per quanto ci riguarda, viene costretto ai quattro
anni che vanno dal 1618 alla tempestiva rottura del 1622; per
riprendersi poi (miracoli dell’arte!) dopo il 1630.
Rubens era fin troppo consapevole, a sue spese, che quando non
personalmente controllata la qualità del lavoro poteva slittargli di
mano. Mi piace citare l’umiltà davvero commovente dell’Artista che
aveva ormai conquistate tutte le corti d’Europa. “Con tutto ciò posso
dire con verità, che li dissegni sono più finiti e fatti con più
diligenza che le stampe, li quali dissegni io posso mostrare ad ognuno
poiche li ho in mia mano”.
Come accaduto per la disgraziata serie delle illustrazioni per la vita
di Ignazio di Lodola - incise a Roma dopo la sua partenza per Anversa
- di una mediocrità disarmante, benché “L’unico disegno che ne
conosciamo, ora al Louvre, sia di rara intelligenza e sensibilità” (D.
Bodart 1977).
Quanto egli stesso lamenta in una lettera enigmatica del 23 gennaio
1619 diretta a Pieter Van Veen e riferita probabilmente al Vosterman:
“Havrei ben voluto che l’intagliatore [bulinista] fosse riuscito più
esperto ad imitar bene il prototypo, pur mi pare minor male di vederli
fare in mia presenza per mano di un giovane ben intentionato che di
gran valenthuomini secondo il loro capriccio”. Non c’è migliore
conferma della preferenza di Rubens per intagliatori rispettosi delle
sue direttive piuttosto che per l’estro di genialità ingovernabili.
Federico Zeri amava ripetere (l’ha scritto anche in qualche suo libro)
che mentre un capolavoro sopporta qualsiasi ingrandimento, sempre
migliorando, una brutta opera non può che peggiorare mano a mano che
viene ingrandita.
Entrando nell’incisione, si riscontrano subito due differenti
tecniche. Un potente ingrandimento permette di distinguere le diverse
specie e modi di interventi e, ciò che più importa, i “tempi di
esecuzione”. Intanto la traccia, cioè il disegno che contorna forme e
figure, risulta incisa all’acquaforte: un segno morbido e sensibile,
robusto e deciso. Tutte le figure e i profili dei volti appaiono
tracciati da questa mano: una varietà e intensità d’espressioni non
certo da copista! Il secondo stadio risulta eseguito al bulino: una
mano assai abile ha dato corpo alle figure con un
intaglio secco e preciso. Di rilevante interesse i punti più delicati
degli incarnati: la mani soprattutto, trattate con interventi di
finissimi punteggiati, vibrazioni infinitesime per imitare una resa di
materia pittorica.
Ecco al terzo livello riapparire l’acquaforte. Com’è possibile,
trattandosi sempre di acquaforte, che le due fasi non siano state
eseguite contemporaneamente?
E’ questa la scoperta più affascinante. Scrutando l’energica
tratteggiatura delle massime ombre (specie tra i capelli degli
apostoli e ovunque appaiano rinforzi consistenti) si osserva che le
linee di di tratteggio procedono a scatti, come a balzelli. La mano
dell’incisore sa riconoscere tali scatti: il caratteristico salto
della punta d’acciaio (puntasecca) ogniqualvolta interseca i solchi
del bulino o dell’acquaforte sottostante. La sicurezza con cui si
riesce qui a padroneggiare la direzione del segno, per quanto gli
incavi possano impedirlo, rivela l’artiglio del Maestro. Per
esperienza so quanto in un intervento del genere risulta difficoltoso,
anche alla mano più esperta, mantenere la direzione voluta.
Se un intervento all’acquaforte - dove si disegna, è l’acido a
incidere - può risolversi in tempi rapidi, la lavorazione a bulino
comporta, oltre una ammirevole pazienza, tempi notevoli: un rapporto
da giornate a mesi.
Questa considerazione conferma che un disegnatore prodigioso come
Rubens era in grado di intervenire in tempi assai rapidi
all’acquaforte, lasciando al paziente lavoro del bulinista tutto il
rimanente, purché sempre sotto controllo. Un procedimento identico a quello di molti suoi disegni. Nelle stupenda Testa a sanguigna di
bambino qui riprodotta egli traccia appunto a sanguigna le parti più
luminose e delicate, lasciano poi agli interventi energici del
carboncino tutte le parti rinforzate in ombra. Nell’incisione la
sanguigna corrisponde al bulino e il nero del carbone all’acquaforte.
La lettera sopra menzionata evidenzia che l’Artista considerasse
l’incisione come emanazione della sua propria creatività. Il suo
occhio straordinario non poteva che fargli ricercare nell’opera
stampata quelle stesse caratteristiche di verità ed energia che ricercava nell’opera dipinta.
Una energia che egli riusciva a suscitare, come nel caso di questa
incisione, avocando a sé tanto la parte iniziale quanto quella finale
del lavoro, con la stessa fluidità con cui riusciva nei dipinti a
interscambiarsi con i suoi valorosi aiuti. Una bottega, la sua, che ha
saputo gestire, oltre uno stuolo di incisori di considerevole statura,
artisti della levatura di Van Dyck o Jordaens: il più importante
esempio di gestione di creazione artistica di ogni tempo.
Eccessivo pretendere che per questa Cena il Maestro abbia messo mano
anche al bulino, nonostante la sua pratica accertata dello strumento e
la definizione di “Pittore del bulino” attribuitagli da Mariette.
Per mio conto è sufficiente, dato il valore del suo doppio intervento
in acquaforte, la certezza che egli ha tenuto sotto controllo l’intera
lavorazione, con un’attenzione specifica all’intaglio. Per il quale
non credo ragionevole, in ultima analisi, spostarsi da Soutman; non
fosse che per le sue documentate capacità e per rispetto di quella
tradizione che concordemente lo richiama. Una attribuzione diversa
suonerebbe meno giustificata, come anche quella a Vosterman, avanzata
da De Liberis, mi sembra posticipi troppo una esecuzione che io sento
collocarsi nel primo decennio del Seicento.
Per cui, come per gran parte del suo stile di produzione pittorica, è
possibile a pieno titolo ascrivere al nome di Rubens la piena
paternità di questo stupendo e insolito foglio. Una qualità e una
rarità di cui non è certo agevole ipotizzare un possibile valore di
mercato. Nella misura in cui è difficile precisare quale valore si
intenda e, soprattutto, a quale mercato ci si voglia riferire.
Come artista e come appassionato studioso di questa meravigliosa arte
su carta non posso che concludere: allo stesso modo che un
appassionato di Rubens ricerca una sua opera autentica di pittura si
può parimenti restare affascinati da questa originalissima “Ultima
cena” del grande maestro di Anversa.




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