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Cassazione, abusi legge 104: licenziamento legittimo

02/10/17

La sentenza n. 8784 pubblicata il 30 aprile 2015, della Corte di Cassazione riconosce la legittimità del licenziamento di un lavoratore il quale usufruì del permesso ex L. 104/92 , utilizzandolo in parte per finalità ricreative e perciò estranee all’assistenza del portatore di handicap.

Fotodi Pasquale Landolfi, avvocato e giudice

Compendiamo in termini meramente espositivi una recente pronuncia della Suprema Corte, con la quale si è ritenuto legittimo il licenziamento disciplinare irrogato ad un lavoratore per utilizzo improprio del permesso ex art. 33 legge 104/92 (legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate).

Con la sentenza n. 8784 pubblicata il 30 aprile 2015, la Corte di Cassazione ha riconosciuto la legittimità del licenziamento di un lavoratore che aveva usufruito del permesso ex L. 104/92 utilizzandolo in parte per finalità ricreative e perciò estranee all’assistenza.

La Suprema Corte era stata chiamata a giudicare una sentenza della Corte di Appello dell’Aquila che aveva ritenuto la condotta del lavoratore “un disvalore sociale giacché il lavoratore aveva usufruito di permessi per l’assistenza a portatori di handicap per soddisfare proprie esigenze personali scaricando il costo di tali esigenze sulla intera collettività, stante che i permessi sono retribuiti in via anticipata dal datore di lavoro, il quale poi viene sollevato dall’ente previdenziale del relativo onere anche ai fini contributivi e costringe il datore di lavoro ad organizzare ad ogni permesso diversamente il lavoro in azienda ed i propri compagni di lavoro, che lo devono sostituire, ad una maggiore penosità della prestazione lavorativa”. Da ciò, sempre secondo la Corte d’Appello, conseguiva che “proprio per gli interessi in gioco, l’abuso del diritto, era particolarmente odioso e grave ripercuotendosi senz’altro sull’elemento fiduciario trattandosi di condotta idonea a porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del lavoratore rispetto agli obblighi assunti”.

Avverso questa sentenza della Corte territoriale il lavoratore condannato ricorreva in Cassazione deducendo, tra l’altro:

– una non corretta applicazione della L. 104/92 in quanto, secondo la sua prospettazione, la norma non richiede il requisito della continuità ed esclusività dell’assistenza;

– il fatto contestato doveva essere assimilato all’assenza ingiustificata per la quale il CCNL prevede solo una sanzione conservativa;

– l’omesso esame della mancata affissione in azienda del codice disciplinare;

Quanto alla prima censura, la Suprema Corte ha motivato che sono “del tutto estranee al tema decidendum le critiche mosse sotto il profilo della interpretazione della normativa” perchè “il “decisum della sentenza impugnata si fonda non sul tipo di assistenza ex art. 33, comma 3°, legge n. 104 del 1992 quanto sul rilievo della utilizzazione del permesso retribuito per finalità diverse da quelle per il quale il legislatore ha previsto il diritto al permesso retribuito”.

Rispondendo al secondo rilievo critico avanzato dal lavoratore, il Supremo Collegio ha escluso l’assimilabilità del fatto illecito contestato e posto a base del licenziamento, con l’ipotesi richiamata dal ricorrente di “assenza ingiustificata prevista dal CCNL”; atteso che la Corte del merito assegna al comportamento motivante il licenziamento (disciplinare), una portata ben più ampia rispetto a quella dell’assenza ingiustificata; considerato che i permessi sono retribuiti in via anticipata dal datore di lavoro, il quale poi viene sollevato dall’ente previdenziale del relativo onere anche ai fini contributivi; impone al datore di lavoro di organizzare diversamente il lavoro in azienda e costringe i compagni di lavoro del lavoratore autore del comportamento sanzionato, ad una maggiore penosità della prestazione lavorativa.

Anche la questione, infine, della mancata affissione del codice disciplinare in azienda è stata ritenuta irrilevante tenuto conto del consolidato principio adottato dalla giurisprudenza di legittimità; secondo il quale la pur necessaria pubblicità del codice disciplinare non si applica nei casi in cui il licenziamento sia irrogato per sanzionare condotte del lavoratore che si concretizzano in violazioni di norme penali, o che contrastano con il cosiddetto minimo etico (Cass. 3 ottobre 2013 n. 22626), ovvero con i doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro (Cass. 18 settembre 2009 n. 20270).

L’ opinione espressa dalla sentenza in parola deve peraltro porsi in relazione ad un precedente che, in tema di accertamento della medesima condotta sanzionata – (Cass. sez. lav. Del 4 marzo 2014 n. 4984) –, aveva qualificato come legittimo da parte del datore di lavoro il controllo occulto del lavoratore mediante investigatore privato – (attuato in fase di sospensione dell’obbligazione principale al di fuori dell’orario di lavoro) – perché preordinato ad accertare e documentare una condotta di natura illecita, con rilevanza anche penale.

Alla luce di quanto affermato dalla Suprema Corte deve pertanto ritenersi che, in tema di applicazione dei permessi ex legge 104/92, il difetto del nesso causale diretto tra assenza dal lavoro e prestazione di assistenza, viola i principi di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro (il quale sopporta modifiche organizzative per esigenze di ordine generale) che dell’Ente assicurativo e tanto rileva sia ai fini disciplinari (licenziamento per giusta causa) che penali, per truffa ai danni dello Stato – (Sistema Sanitario Nazionale ed Ente Previdenziale).

Pasquale Landolfi, avvocato e giudice
Euroitalia, 30 giugno 2015



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