Decreto 231 e reati tributari. L'appello delle Sezioni Unite.
È stata depositata il 5 marzo scorso la motivazione della sentenza n. 10561 emessa dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione il 30 gennaio scorso. Pareva trattarsi dell’ennesima pronuncia sulle modalità applicative del sequestro preventivo per equivalente, ma la motivazione emessa è a dir poco singolare e vede il più autorevole dei giudici prendere una posizione netta nei confronti del Legislatore.
Il caso trattato fa parte delle innumerevoli occasioni in cui il Pubblico Ministero chiede ed ottiene (in grado di appello) l'applicazione della misura cautelare del sequestro preventivo per equivalente nei confronti del legale rappresentante di una società, indagato per aver commesso un reato tributario (nel caso di specie il reato di omesso versamento di IVA di cui all'art. 10-ter della L. n. 74/2000) nell'esercizio delle proprie funzioni.
La Terza Sezione della Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sul ricorso del legale rappresentante del provvedimento, rimetteva il caso alle Sezioni Unite affinché risolvessero il contrasto giurisprudenziale sorto circa la possibilità di emettere il provvedimento di sequestro preventivo per equivalente (e successivamente il provvedimento di confisca) del profitto del reato tributario nei confronti della persona giuridica effettivamente avvantaggiata dall'illecito, anziché nei confronti dell'indagato (per un miglior approfondimento del tema vai al sito).
Nel negare la confiscabilità dei beni appartenenti a soggetti diversi dall'autore del reato tributario, il sommo collegio ribadisce che la confisca per equivalente (e dunque il sequestro preventivo volto a garantirne l'esperibilità) possa essere eseguita nei confronti delle persone giuridiche nei soli casi previsti dall'art. 19 del D. Lgs. n. 231/2001 e dall'art. 3 della L. n. 146/2006. In ogni caso in cui il reato commesso non rientri tra i reati presupposto di responsabilità amministrativa degli enti e non abbia rilevanza transnazionale, seppure lo stesso abbia prodotto profitto esclusivamente per la persona giuridica nel cui interesse è stato commesso, alla luce delle disposizioni normative vigenti, sarà soltanto il patrimonio dell'autore a poter essere aggredito.
Fin qui nulla di sconvolgente. Le Sezioni Unite dirimono il contrasto, motivando ampiamente la posizione adottata e dando chiare indicazioni sull’interpretazione da seguire. Tuttavia, nelle righe che seguono può leggersi tutta la frustrazione del giudice chiamato a pronunciarsi su una lacuna legislativa completamente illogica. Infatti, ad avviso delle Sezioni Unite, "la situazione normativa delineata presenta evidenti profili di irrazionalità".
Ciò in quanto il mancato inserimento dei reati tributari nell'elenco del D. Lgs. 231/2001 e la conseguente impossibilità di recuperare presso gli enti collettivi le somme dagli stessi dovute e non versate nelle casse dello Stato, "rischia di vanificare le esigenze di tutela delle entrate tributarie" che avevano motivato l'estensione dell'ambito applicativo della confisca per equivalente ai reati fiscali. Non v'è dubbio, infatti, che nella maggior parte dei casi il patrimonio della società si presenti assai più florido di quello del suo legale rappresentante che, con un po' di accortezza, avrà contenuto il rischio di aggressione dei propri beni conferendoli in fondi patrimoniali o vincolandoli in alto modo. Ma non solo.
La Suprema Corte sottolinea altresì come sia la stessa disciplina della responsabilità amministrativa degli enti nel suo complesso, a fare le spese della mancata previsione dei reati tributari nell'ambito applicativo del D. Lgs. 231/2001. Tale norma, infatti, è stata introdotta al fine di penalizzare le imprese condotte “illegalmente” che traessero vantaggio dalle condotte illecite dei propri soggetti apicali e dei propri dipendenti, a discapito dei concorrenti rispettosi delle norme e del principio di legalità. Esattamente come accade nel caso di omesso versamento da parte del legale rappresentante dell’IVA dovuta dalla società rappresentata.
La pronuncia in esame lascia chiaramente intendere che le Sezioni Unite solleverebbero una questione di legittimità costituzionale, se solo non fosse pacificamente esclusa a norma dell'art. 25, comma 2, Cost. la possibilità per la Consulta di adottare una "pronuncia additiva che comporti effetti costitutivi o peggiorativi di responsabilità penale, trattandosi di interventi riservati in via esclusiva alla discrezionalità del legislatore".
Al sommo collegio non resta dunque altro da fare che sottolineare l'irrazionalità del sistema creatosi ed "auspicare un intervento del legislatore, volto ad inserire i reati tributari fra quelli per i quali è configurabile responsabilità amministrativa dell'ente ai sensi del D. Lgs. 8 giugno 2001, n. 231".
La netta posizione assunta dalle Sezioni Unite non può che essere condivisa, così come l’appello al Legislatore affinché provveda finalmente ad estendere l’applicabilità della disciplina in materia di responsabilità amministrativa degli enti anche ai reati tributari. Solo in tal modo potrebbe infatti garantirsi il recupero delle somme dovute all’erario e mai versate dalle società coinvolte.
Inoltre, solo in tal modo potranno cessare i raffazzonati tentativi di sanzionare le imprese per i reati tributari contestandone la commissione da parte di un’associazione a delinquere interna all’ente e potranno trovare una maggior tutela tutti quegli enti collettivi che, per giocare secondo le regole, scelgono ogni giorno di adottare i modelli di organizzazione, gestione e controllo e malgrado ciò si trovano vulnerabili davanti alle ricostruzioni dell’autorità giudiziaria.
Non resta dunque che attendere fiduciosi l’intervento del Legislatore, augurandosi che lo stesso intervenga tempestivamente.
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