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Heidegger e gli animali: siamo tutti esseri "gettati" nel mondo?

24/10/11

Chi non si è mai sentito, qualunque sia il suo carattere e la sua situazione di vita, "gettato" in questo mondo? Con tutto quello che consegue: un certo senso di insicurezza, una certà "tonalità". E se gli animali fossero gettati nel mondo come noi?

Siamo arrivati alla fine del nostro studio. L'ultimo capitolo è dedicato alla questione animale in Heidegger, filosofo fra i più grandi di sempre, la cui influenza sul pensiero contemporaneo è incalcolabile. Pensatore noto anche per la non facile fruibilità delle sue opere. Alcuni concetti heideggeriani saranno semplificati (cioè ridotti) in questo post, e credo non si possa fare altrimenti.

Passiamo allora a considerare quanto scrive Heidegger in merito all’animale in Essere e Tempo e nel successivo seminario Concetti fondamentali della metafisica1.
Scrive Derrida in Quale Domani?2: “Tutti i tentativi di decostruzione che ho cercato di compiere su testi filosofici, su quelli di Heidegger in particolare, consistono nella messa in discussione di quell’atteggiamento di consapevole negligenza nei confronti di ciò che si chiama genericamente l’Animale e del modo in cui questi testi interpretano il confine tra Uomo e Animale”. Come vedremo, Heidegger ha tentato di fornire dei criteri discriminatori per esplicare la differenza ontologica fra uomo e animale; ma al contempo, a un livello più profondo, la questione dell’Animale (come esplicitamente asserito in Essere e tempo) resta un problema aperto per il filosofo tedesco.
Nel seminario sui Concetti Heidegger scrive che l’animale ha rapporto con l’ente, ma non con l’ente “in quanto tale”. Questo “in quanto tale” non dipende dal linguaggio: l’animale infatti non ha il logos in quanto non ha l’“in quanto tale” che fonda il logos. La nostra indagine, quindi, seguendo Heidegger, si sposta su un piano radicalmente ontologico.
Questo passaggio del seminario heideggeriano è interessante: “Il comportamento dell’animale non è mai l’apprendere qualcosa in quanto qualcosa. Se definiamo questa possibilità, considerare qualcosa in quanto qualcosa come un elemento caratteristico del fenomeno del mondo, la struttura dell’“in quanto” è una determinazione essenziale della struttura del mondo. In tal modo l’“in quanto” viene dato come una possibile impostazione del problema del mondo”3.
Questa possibilità strutturale dell’apprendere è riservata all’uomo, è “una forma normale del discorso umano”.
Come ricorda Derrida, “Heidegger tenta di andare oltre l’alternativa meccanicismo/finalismo”, affermando di volersi sottrarre alle opposizioni dottrinali che hanno caratterizzato i discorsi sull’animale nella storia della filosofia occidentale. In Essere e tempo la questione è pressoché assente; la incontriamo solo nel capitolo dell’Essere-per-la-morte, dove l’animale che “non muore” [che non muore come l'uomo, con la consapevolezza dell'uomo] è escluso dal discorso e differenziato dal Dasein [l'"uomo heideggeriano"] in quanto Essere-per-la-morte; e poi in una breve ma interessante nota, dove Heidegger sottolinea come, ad ogni modo, la questione di sapere se l’animale ha un tempo oppure no, resta un problema in sospeso; una nota che getta una chiara luce sulle difficoltà incontrate nell’affrontare la questione.
Soffermiamoci ora su una delle tre tesi del seminario sui Concetti fondamentali: la pietra è senza mondo, l’animale è povero di mondo, l’uomo è formatore di mondo.
Che vuol dire che l'animale è povero di mondo?

Il seminario all’inizio tratta la determinazione della filosofia a partire da se stessa, e ciò che interessa particolarmente Heidegger in tutto questo è la “tonalità fondamentale”, la Grundstimmung, ovvero la nostalgia4. “Non è senza importanza”, scrive Derrida, “che la questione dell’animale si vada affermando in una riflessione sulla tonalità fondamentale. […] Una volta ancora si tratta di rispondere alla domanda: ‘Che cos’è l’uomo?’”, e per farlo bisognerà rispondere alla domanda: “Che cos’è il mondo?”.
Derrida prosegue: “[C]iò che mi interessa mostrare, in modo naturalmente provocatorio, è che il discorso heideggeriano è ancora cartesiano5”, nonostante Descartes sia il primo a essere preso di mira e bastonato tanto in Essere e Tempo quanto nel seminario del ’29-’30.
Riportiamo alcune righe da una delle citazioni proposte da Derrida: “Descartes ebbe fondamentalmente l’intuizione di fare della filosofia una conoscenza assoluta. E proprio in lui possiamo osservare un fatto singolare. Il filosofare inizia con il dubbio, e sembra che tutto venga posto in questione. Ma è solo apparenza. L’esistenza, l’io non viene affatto posto in questione6”. L’ego sum cartesiano resta dogmatico. [Noi ne abbiamo parlato in relazione alla definizione di animale]. Nonostante questo, secondo Derrida, quando Heidegger avanza in direzione di un nuovo interrogarsi sull’animale il suo gesto resta malgrado tutto, “profondamente cartesiano”.
Il suo gesto resterà tale in quanto riproporrà un demarcazione centrata sul concetto di “in quanto tale”.

Ma procediamo con ordine: “Non si tratterà per Heidegger di legare l’“in quanto tale” semplicemente a una struttura della coscienza o della rappresentazione. Si tratterà di una profondità più radicale”, legata, in termini heideggeriani, a “un far svegliare ciò che dorme”. E “svegliare” è un “lasciar destare ciò che dorme”.

Mi rendo conto delle difficoltà intrinseche alla lettura di questi piccoli estratti, ma lo studio delle considerazioni heideggeriane è estremamente interessante in quanto ci permette di assistere a un tentativo di “definire l’essenza dell’uomo in altro modo che non attraverso la coscienza, in altro modo che non attraverso la ragione […] e non più attraverso l’Io…”7.
Proseguiamo con il testo dei Concetti: “… se destiamo uno stato d’animo, ciò implica che esso c’era già, e tuttavia non c’era […] se lo stato d’animo è qualcosa che fa parte dell’uomo, che, come si dice, è in lui, che l’uomo ha [...] non ci avvicineremo ad esso fintantoché continueremo a considerare l’uomo come un qualcosa che si differenzia dalle cose materiali per il fatto di avere una coscienza, di essere un animale dotato di ragione, un animal rationale o un io con delle pure esperienze vissute, ma legato a un corpo. […] Questa concezione dell’uomo come essere vivente che in più ha la ragione ha condotto a un totale misconoscimento dell’essenza della tonalità”8. Per Heidegger superare la concezione cartesiana dell’uomo è fondamentale al punto che “il destare una tonalità” e il farsi veramente strada verso questo “essere singolare” - l'uomo -, vengono a coincidere con l’esigenza di un mutamento radicale nella concezione dell’uomo stesso.

Ecco, in termini heideggeriani, la problematica di fondo su cui tutti i pensatori esaminati finora hanno operato la loro scelta: “Tale problema è intrinsecamente connesso con la questione della struttura ontologica di queste diverse specie di enti: pietra, pianta, animale, uomo”.
Le tesi sulla pietra, l’animale e l’uomo sono tesi sul mondo e per poterne parlare bisognerebbe sapere che cos’è il mondo. Derrida scrive che Heidegger “dice, in qualche modo: alla fine non si sa che cos’è il mondo! È un concetto molto oscuro!”9.

Bene, ora voi starete pensando: ma allora, quando si arriva al sodo?
Eppure, a ben vedere, siamo assai vicini al cuore stesso del nostro problema, siamo anzi arrivati a concepire la cosa come “puro” problema.
Fermiamoci un attimo. Finora abbiamo accumulato domande e non risposte. Perché siamo vicini al cuore del problema? Perché siamo sia già arrivati a qualcosa di importante?
Finora, le conseguenze delle riflessioni filosofiche che abbiamo analizzato sono state (salvo parziali eccezioni): noi possiamo usare violenza a chi è diverso perché noi siamo altro, noi siamo superiori.

Se arriviamo invece a realizzare che noi non sappiamo in effetti cosa è il mondo, non sappiamo dare risposte alle "grandi domande" e in un certo senso siamo immersi nel "mistero", le cose cambiano.
Uccidere è facile. Uccidere o usare violenza a un essere diverso da noi dopo che si è compreso che noi non abbiamo certezze non è facile.
Un'etica più accettabile, più evoluta, può partire da problemi, da dubbi e domande, anziché risposte.

Esaminiamo il passo che precede le tre tesi: Heidegger si chiede, se “l’uomo ha il mondo” , si chiede come stanno le cose riguardo agli “animali, le piante, le cose materiali”. Anche l’animale “ha il mondo”? Il discorso viene impostato sul modo in cui è possibile concepire queste alterità. Heidegger presenta le tesi e sceglie di “entrare” attraverso la seconda, l’animale povero di mondo. Si caratterizza allora la differenza tra l’essenza dell’animalità dell’animale e dell’umanità dell’uomo. Il discorso ruota attorno alla possibilità di morire.

L'importanza della morte risiede nel fatto che la nostra vita si definisce sul nostro dover morire. Se noi non morissimo, ma vivessimo all'infinito, ovviamente le scelte compiute non avrebbero lo stesso peso: hanno una rilevanza particolare poiché gli anni che ci sono dati da vivere sono limitati e noi ne siamo consci.

Qui, a differenza di quanto fatto in precedenza, Heidegger unisce uomo e animale attraverso la possibilità di morire che definisce la vitalità del vivente1, e da qui passa a definire il Daseincome un esistente che non è essenzialmente un vivente. Tuttavia nel seminario che stiamo esaminando questa problematizzazione sfocia in un insistente sentimento di vertigine. Heidegger afferma poco dopo che la povertà dell’animale non si delinea in una gerarchia, che non c’è un vero e proprio “meno”, perché non c’è un ordine di valori: la povertà dell’animale viene discussa come una “privazione”, che non è un sentimento semplicemente-negativo, poiché affermare ch’esso è povero di mondo significa mostrare che ha il mondo, poiché la sua privazione implica “un modo di sentirsi essere” povero, una tonalità. L’animale resta imprigionato nella privazione, ma (e questo non deve essere sottovalutato), questa povertà non significa un meno: evidenziando il fatto che l’animale possa soffrire, lo si distingue dalla pietra. Ciò nonostante, alla lucertola stesa su una pietra, comunque le cose attorno non appaiono “in quanto tali”.
Quindi: l'animale è povero di mondo perché ha il mondo eppure non lo ha come lo ha l'uomo, poiché all'uomo le cose appaiono in quanto tali. All'animale no. Come dice ancora Heidegger più avanti nel testo, all’animale manca la capacità di lasciar-essere l’ente in quanto tale, ovvero, esso non lascia che l’oggetto sia quel che è, che “appaia tale senza un progetto guidato da un ‘tubo’ stretto di pulsioni, di desiderio”2. L'animale non ha l'"in quanto tale" perché non lascia che l'oggetto sia quel che è ma ci si rapporta sempre tramite un tubo di pulsioni.

Ma (e vediamo ancora in azione il solito movimento decostruttivo derridiano), si può forse sciogliere il rapporto del Dasein (dell'uomo in quanto essere gettato nel mondo) dal suo stato di progetto vivente? Davvero l’uomo lascia essere l’ente? In fin dei conti, nonostante l'interesse suscitato dal tentativo heideggeriano di riproporre il discorso partendo da una profondità più radicale (che si pone oltre le distinzioni generate, per esempio, dal linguaggio), anche qui ritroviamo delle considerazioni fondate su una struttura oppositiva, benché accompagnate da una percezione più profonda delle difficoltà delle scelte operate: ricordiamo il “problema aperto” della temporalità animale in Essere e Tempo, il senso di vertigine nel seminario sui Concetti, le evidenti debolezze intrinseche alla distinzione infine proposta e criticata da Derrida, nonché il tentativo di organizzare l’opposizione su una scala non gerarchica. Derrida nelle ultime righe de L'animale che dunque sono parla di una strategia etica che consisterebbe “nel moltiplicare l’‘in quanto tale’ e, invece di rendere semplicemente la parola all’animale, o dare all’animale ciò di cui in qualche modo l’uomo lo priva, nel segnalare che anche l’uomo ne è in qualche modo ‘privato’, una privazione che non è una privazione, e che non c’è un ‘in quanto tale’ puro e semplice”1. Data l’importanza della questione, come abbiamo visto nel corso della nostra carrellata, tutto ciò porta a una radicale reinterpretazione del vivente: ne va della “differenza ontologica”, scrive Derrida, “della ‘questione dell’essere’, di tutta l’impalcatura del discorso heideggeriano”.

Il filosofo francese si rende conto che problematizzando l’inamovibilità della linea di confine tra l'Uomo e l'Animale, si rischia di precipitare in una generale messa in questione di qualsiasi responsabilità ed “elaborazione etica”. Si preoccupa allora di richiamare alcuni capisaldi teorici indispensabili per qualunque considerazione etica che voglia porsi in un’ottica non oppositiva o suprematistica nei confronti dell'Altro, e in particolar modo dell'Altro-Animale. Riassumendoli: 1) Dubitare della responsabilità, della decisione, “del proprio esser-etico”, può e deve restare “l’essenza irrecedibile dell'etica, della decisione e della responsabilità”. 2) “Senza cancellare la differenza, una differenza non di opposizione e infinitamente differenziata […] tra reazione e risposta”, si tratta di riconsiderarla “in tutto l'ambito differenziato dell'esperienza e di un mondo della vita”. 3) “Infine, si tratterebbe di elaborare un’altra ‘logica’ della decisione, della risposta, dell'evento [...] di riscrivere questa differenza dalla reazione alla risposta, e dunque la storicità della responsabilità etica, giuridica o politica, in un altro pensiero della vita, dei viventi”.

Da questo coacervo di questioni vengono fuori alcuni punti che possono essere di interesse come base per una nuova riflessione sul rapporto uomo-animale. I) L'uomo muore e definisce la sua vita sulla base del suo dover morire. Anche per l'animale è così? Oppure no? A partire da questo potremmo tracciare una linea di uguaglianza che anziché partire dal nostro vivere parte dal nostro comune dover morire. II) Se la linea di demarcazione portata avanti dai vari filosofi si basa solo su dogmatismi allora su cosa si basa il nostro essere più in alto rispetto agli "Altri"? III) Se, seguendo Heidegger, non sappiamo cos'è il mondo, se siamo immersi nella nostra possibilità e problematicità fino al collo, da dove viene tutta la nostra tranquillità nel compiere atti di violenze verso gli "Altri"?

Domande. Perché se forse prima non sembrava difficile stringere il corno di un bovino fra grandi tenaglie e ruotare e strappare facendo volare il sangue, forse dopo essersi posti alcune domande sarà più difficile. Perché certe volte, come dicevamo prima, le domande contano più delle risposte.

Ma non voglio chiudere questo studio con delle domande, nonostante tutto. Vorrei chiuderlo con un bel furto. Niente ci impedisce di appropriarci di alcune geniali espressioni heideggeriane per farci quel che ci pare. E allora pensiamo un attimo a questa espressione, fondamentale nel definire l'uomo: l'uomo è un essere gettato nel mondo. L'espressione è davvero potente. Chi non si è mai sentito, qualunque sia il suo carattere e la sua situazione di vita, "gettato" in questo mondo? Con tutto quello che consegue, un certo senso di insicurezza, una certa "tonalità"... E se gli animali fossero gettati nel mondo come noi? Sembra una cosa da poco ma non lo è. Non vuol dire solo condividere lo stesso pianeta, e nemmeno sottostare alle stesse leggi fisiche.Comprendere che gli "Altri" sono esseri gettati nel mondo come noi vuol dire comprendere che non solo condividiamo lo stesso luogo, ma anche la vita, il fatto di "ritrovarci a vivere" in questo mondo. Vuol dire porsi in uno stato d'animo che ci apre alla solidarietà. Che si tratti di uomini diversi da noi, o di animali, è la stessa cosa. Se pensiamo agli "Altri" come a esseri gettati come lo siamo noi, non siamo a metà strada verso una migliore sensibilità etica.Siamo più avanti.



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