La Spezia, il Giorno del Ricordo: Paolo Logli legge 'Quell'enorme lapide bianca'
Giovedì 10 febbraio (ore 21, Sala Dante), lettura del testo teatrale "Quell'enorme lapide bianca. In memoria della tragedia delle genti Istriane, Fiumane e Dalmate", un testo scritto 4 anni fa da Paolo Logli, spezzino trapiantato a Roma, sceneggiatore e autore; l'ultima sua fatica il romanzo noir "Quis ut deus". "Quell'enorme lapide bianca" ha riscontrato notevole successo: due anni fa è stato rappresentato a Montecitorio, con una platea bi-partisan, da Fini a Violante. In quell'occasione seguì un vivace dibattito perchè Violante dichiarò che si era sentito a disagio per gli errori della sua parte, dimostrando una grande onestà intellettuale.
Note su “QUELL’ENORME LAPIDE BIANCA”
Di Paolo Logli
C’è una pagina di storia italiana di cui, fino a poco tempo fa, non si poteva parlare: le foibe. Un sacrificio negato, da non rivangare. Per prevenzione ideologica, o per partito preso: i buoni (unici per voce comune e per auto candidatura) non ci facevano una bella figura. Per altro verso, però, parlarne era spesso un tassello di un complicato gioco di equilibri ideologici: tanti morti di qui, tanti di la’… alla fine ognuno aveva i suoi cadaveri e le sue colpe, il consuntivo era zero. Per altri, se errore c’era stato, era in nome di un ideale.
Ideale. Un ideale giustifica i morti? E per converso, se un ideale frainteso causa soprusi, è solo per questo sbagliato? Non crediamo a nessuna delle due cose. Crediamo invece che la sofferenza, l’ingiustizia, i soprusi, in nome di qualsivoglia sole, dell’avvenire o meno, ci insegnino che tutte le volte che qualcuno si sente investito di una superiore missione – unto del Signore, araldo del progresso, paladino degli oppressi – qualcun altro rischia di farne le spese. E invece non c’e’ nessuna missione così superiore da giustificare il sopruso, la violenza, lo sterminio. Ne’ un dio, ne un’idea politica.
“Quell’enorme lapide bianca” è il dialogo intimo e privato tra due amici: uno sloveno e un italiano, bambini assieme in Istria prima del dramma. Lo sloveno, Ive, è cresciuto nella sua verità, fatta di slogan, pensieri semplificati da mandare a memoria. Ha una spiegazione semplice, tranquillizzante: la sua gente ha cacciato gli invasori. L’italiano, Enrico, non è sopravvissuto. Non tanto alla violenza bestiale degli sgherri di Tito, quanto al silenzio imbarazzato, velato di opportunismo politico, di tanti progressisti del suo paese, simbolo di un nemico di classe che non sapeva di essere… Simbolo di troppi casi in cui l’oppositore, il dissenziente, il diverso sono una macchia nella perfezione dell’ideologia. Da rimuovere, se necessario da distruggere. Ma non ci sono morti rossi, neri o azzurri da spregiare o appuntarsi al petto come medaglie. C’erano persone. Con affetti, sogni, speranze. Non ci sono più. E pretendono di non essere dimenticate.
Sulla base di un mio testo che ha già ottenuto riscontri pubblici e istituzionali, vorrei creare un “elzeviro” di parole e immagini, un prodotto ibrido (e – per questo – innovativo) che si collochi a metà strada tra la lettura teatrale e il documentario. “Quell’enorme lapide bianca” nasce ed è concepito come un monologo, e tale rimarrà anche nella versione video. La ripresa della lettura teatrale in un teatro vuoto, le cui poltrone sono popolate solo di manichini, a simboleggiare il silenzio assorto ed assente della storia, si andranno ad appoggiare elementi di recitazione pura, in cui due giovani attori ricostruiranno, senza l’ausilio del dialogo, le fasi alterne e contraddittorie dell’amicizia tra Ive ed Enrico, elementi di vero e proprio documentario, realizzati attingendo alla poca documentazione video sul dramma delle foibe, e sull’archivio fotografico delle associazioni profughi, ed elementi (sto per dire) paesaggistici, se mi si passa la volontaria ironia: riprese dei luoghi del dramma oggi. La villa di Osimo dove è stato firmato l’infame trattato che ha sacrificato il passato e il futuro di decine di migliaia di italiani alla logica dei blocchi, ciò che resta del campo profughi di Jesi, dove si svolge l’azione del testo, e da dove Enrico scrive il suo diario, la Famigerata Foiba di Basovizza, dove migliaia di italiani hanno trovato la morte.
L’idea di fondo è di procedere per suggestioni poetiche e non per didascalica documentazione delle parole del monologo. Non intendo, per capirci, procedere sovrapponendo al passaggio di testo in cui si parla della stazione di Bologna, immagini di quella stessa stazione, ne’ mettere filo spinato quando si parla di reticolati.
Intendo, semmai, cercare delle risonanze interne, più profonde, con le quali accoppiare le suggestioni e i suoni del testo alle immagini – documentaristiche o ricostruite – del dramma delle Foibe.
Il desiderio è realizzare, come già accennato, un’opera ibrida, non inquadrabile, che viva dei colpi d’ala della suggestione poetica e della prosaica durezza della cronaca. Per quanto con tanti, troppi anni di ritardo.
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