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Buon anno?

24/01/09

Anno nuovo problemi vecchi e nuovi.

Di Silvio Battistini
Segretario Generale Fismic Roma

Ci siamo lasciati alle spalle un 2008 tormentato e difficile ed il 2009 non promette, purtroppo, nulla di buono anche perché i vecchi maestri di incantesimi sono ancora, tutti, al loro posto dando, nettamente, l’impressione di essere inamovibili.
Ciò rende sempre più faticoso e difficile dipanare quella intricata matassa che, quotidianamente, ci impedisce di distinguere il falso da ciò che sembra vero e viceversa mettendoci nella condizione di dover assistere, quasi inermi, all’esercizio quotidiano di tanti commentatori sempre pronti ad alzare il dito contro le manchevolezze di questo e di quello, ma altrettanto pronti a girarsi dall’altra parte dimostrando, in tal modo, il loro strabismo di fronte ai problemi ai problemi veri che affliggono una parte crescente del paese.
In tutto ciò lo Stato, inteso nella sua dimensione etica, sembra non poter essere oggetto di valutazioni morali da parte dell'individuo ponendosi quasi come fine supremo e arbitro assoluto del bene e del male.
Sono tempi di crisi dura, difficile, ed i nostri politici si stanno arrovellando nella discussione sulla sua natura continuando, prevalentemente, a dibattere su come etichettarla ("rallentamento", "frenata" o "recessione") fingendo di ignorare, che in tal modo, non si cambia la realtà delle cose.
Il paese non cresce e di ciò bisogna, intanto, prendere atto ponendoci, in primo luogo, il problema di come farla ripartire; dovremmo essere in grado di attivare politiche economiche in grado di sostenere, in modo adeguato e con continuità, sia la domanda che l’offerta cercando di contenere, nel contempo, i prezzi visto che il potere di acquisto di salari e pensioni è in continua regressione (il che comprime, sempre più, la domanda interna) mentre i profitti delle imprese – come, recentemente, ci ha detto Mediobanca – sono aumentati di oltre il 10%.
Ma se la capacità di innovazione di un paese è lo strumento strategico capace di orientare l’attività dell’intero sistema produttivo e se le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, con la loro pervasività, sono tali da costituire un importante punto di osservazione dal quale si misura il grado di competitività di un paese l’Italia ha di che essere preoccupata proprio in considerazione dei suoi ritardi storici proprio nei settori a più alto tasso di innovazione dove continua a mancare una politica industriale capace di puntare veramente sulle tecnologie innovative e della comunicazione individuandole come uno dei settori fondamentali per lo sviluppo del paese.
Sulle difficoltà del settore continua a pesare oltre che la crisi economica generale anche la contrazione degli investimenti nella P.A.
Ciò determina una sostanziale precarietà di centinaia e centinaia di dipendenti delle aziende del settore il cui posto di lavoro sarà sempre più a rischio se, rapidamente, non verranno assunte decisioni in grado di far da volano all’intera economia (per esempio riprendendo gli investimenti per l’informatizzazione della P.A.).
Far ripartire servizi ed innovazione nella pubblica amministrazione significa, peraltro, dare nuovo impulso anche a settori contigui all’Ict.
Ma in tempi di crisi occorre, anche, far lavorare la fantasia per costruire nuovi strumenti che siano in grado di far evolvere il paese verso una strategia industriale effettivamente orientata all’innovazione con una visione organica e di sistema che, oggi, continua ad essere assente.
Invece é come se il nostro paese avesse una strutturale difficoltà a mettere in moto un meccanismo di crescita sufficientemente duraturo nel tempo e capace di andare oltre “inventando” nuove modalità di sviluppo o, più semplicemente, utilizzando bene quelle esistenti.
Se si ha chiara la coscienza di dover fare i conti con una situazione economica caratterizzata, in estrema sintesi, da una forte diminuzione della ricchezza prodotta e da una altrettanto forte crescita dei prezzi non può non venire spontanea la considerazione di essere di fronte ad una situazione caratterizzata da un “quadro sintomatologico” dovuto a più fattori
Senza dubbio ed in primis, ad esempio, si può osservare come il permanere del debito pubblico a livelli elevati (105% del PIL) ostacoli l’accumulazione di capitale deprimendo proprio la propensione delle imprese ad investire mentre l’arretratezza delle infrastrutture (materiali ed immateriali) e la loro mancata crescita dimensionale, anche nei settori più dinamici, non solo restringe fortemente le possibilità di internazionalizzazione ma limita, di conseguenza, le esportazioni.
La ridotta dimensione delle nostre imprese porta, inoltre, con sé almeno due ulteriori considerazioni di estrema importanza la prima delle quali è legata alla bassa intensità di ricerca e sviluppo della nostra economia rispetto a quella di altri paesi, mentre la seconda è connessa al numero particolarmente elevato di imprese di piccole dimensioni.
I due elementi citati sono strettamente connessi poiché gli investimenti in ricerca e sviluppo da un lato appaiono maggiormente sopportabili dalle grandi imprese e, dall’altro, la loro natura di costi fissi fa si che essi divengano remunerativi solo se i loro risultati sono sfruttabili su ampia scala il che è, in genere, molto difficile soprattutto per la piccola impresa.
Del resto, da un esame specifico dei dati relativi, risulta più che evidente che l’intensità della ricerca tende a crescere proprio al crescere della dimensione delle imprese.
Si pensi, ad esempio e proprio in tale ottica, all’importanza che potrebbe avere sul piano dello sviluppo delle competenze professionali, la creazione di poli per la ricerca nel settore Ict o la costruzione – specialmente per le piccole imprese – di strutture di formazione inserite in progetto nazionale in grado di dare valore e ruolo effettivo alla conoscenza nei processi produttivi.
Per recuperare produttività il sistema economico italiano dovrebbe, dunque, investire in un’innovazione orientata alla creazione di strumenti nuovi che dovrebbero configurarsi come veri e propri network di supporto, come “interfaccia” fra il mondo della ricerca e quello delle imprese, come ponte virtuale fra i due sistemi, come intermediari “intelligenti” fra la domanda e l’offerta tecnologica.
Formazione e ricerca si confermano, dunque, come anelli imprescindibili del nostro sistema economico ma ad entrambi sarebbe necessario fornire la linfa necessaria proprio al fine di cementare una potenziale alleanza, un circuito virtuoso, fra strutture organizzative d’impresa e professioni.
Dovrebbe, dunque, essere un’innovazione capace di puntare sulle risorse umane, sul valore dei beni immateriali e quindi dovrebbe essere orientata a creare i presupposti affinché in Italia si possano individuare nuove forme di vantaggio competitivo non solo sul “tradizionale” ma anche sviluppando idee, innovazione e prodotti software finalizzati a realizzare l’integrazione tra il mondo dei media e quello delle telecomunicazioni.
In tale ottica sarebbe opportuno adottare misure in grado di sostenere quelli che possiamo definire centri di competenza per l’innovazione che, fra l’altro, potrebbero frenare quella fuga di cervelli che rischia di depauperare il nostro patrimonio di competenze e conoscenze.
Ma se la situazione è quella, sommariamente, descritta il problema resta quello di capire dove si trovano le risorse per rilanciare il settore della ricerca e sviluppo? Come si fa a porre rimedio alla scarsità di fondi pubblici e, contemporaneamente, recuperare quel gap infrastrutturale che divide l’Italia dagli altri paesi industrializzati?
A mio avviso ci sono strumenti che, lungi dall’essere la risposta a tutti i problemi, possono essere utili a realizzare opere pubbliche, interventi infrastrutturali, senza oneri finanziari per la pubblica amministrazione, strumenti che – come ad esempio il Project Financing - hanno il grande pregio di riuscire a mettere insieme pubblico e privato e che possono essere, anche, potenti strumenti sia per l’internazionalizzazione dei sistemi industriali che per quei paesi con debito pubblico elevato come è, per l’appunto, l’Italia.
Con il Project Financing, infatti, potrebbe essere possibile creare un legame di tipo nuovo, più diretto, tra attività e passività dell’investimento in quanto questo strumento si riferisce alla valutazione dell’equilibrio economico – finanziario di uno specifico progetto d’investimento isolato da eventuali altre iniziative poste in essere dagli stessi soggetti.
Ma alla base dei problemi italiani ci sono, tuttavia, problemi strutturali che renderebbero necessari interventi strutturali soprattutto in relazione a due grandi questioni: l’abbassamento della soglia di povertà ed il cosiddetto rilancio dei consumi.
Appare evidente che è molto difficile riuscire a sostenere che la crisi del paese possa essere risolta dalla concessione di occasionali contributi ai “più bisognosi”, mentre occorrerebbero interventi strutturali sul sistema fiscale per correggerne le distorsioni accumulate, nel tempo, a danno di lavoratori e pensionati così come chi soffre la fame non è certo vittima di una insufficiente offerta di consumi ma, caso mai, di un reddito troppo basso o, a volte, del tutto assente.
Si dice, spesso, che le crisi costituiscono, al tempo stesso, un rischio ed una opportunità.
Come si fa, allora, a scongiurare il rischio ed a cogliere l’opportunità evitando pericolose ripercussioni sul piano occupazionale?
Certo una strada utile può essere quella di ripartire il lavoro esistente lavorando meno per lavorare tutti. E’ una vecchia parola d’ordine del sindacato resa più complessa dal fatto che se, veramente, si vuole che sia adeguata alla fase essa dovrebbe prevedere una riforma anche quantitativa degli ammortizzatori sociali per i quali non ci sono, però, i soldi.
La discussione vera è, dunque, su come realizzare l’integrazione del reddito. Occorre escludere che essa possa prevedere un riduzione di salario (molte famiglie, ormai, con lo stipendio arrivano a stento alla terza settimana del mese) quindi bisognerebbe fare ricorso al fondo dell’Inps (che andrebbe, quindi, esteso a tutte le categorie) oppure utilizzando il Fse come strumento di sostegno al reddito.
Ma se il lavoro scarseggia un’altra strada potrebbe essere quella di essere capaci di inventare il lavoro favorendo, ad esempio, la creazione di auto impiego anche in forma cooperativa.
In questa ottica sarebbe così scandaloso se anche il sindacato divenisse soggetto attivo di tale processo costruendo occasioni di lavoro anziché limitarsi a rivendicarlo?
Già, il sindacato…..in un periodo di crisi come l’attuale esso appare più che mai diviso ed incapace di riconsiderare se stesso nelle nuove condizioni che a mio avviso richiederebbero sia una più ampia unità, capace di andare oltre Cgil, Cisl e Uil, sia una più forte e marcata autonomia intesa non solo come diversità dalla politica ma, anche, come capacità di costruire un progetto autonomo di sviluppo sociale.
Questo breve richiamo al sindacato mi induce ad una ulteriore considerazione relativa al fatto che i comportamenti di Cgil, Cisl e Uil appaiono francamente assai poco compatibili con l’esigenza di costruire una efficace strategia per il futuro rispetto alla quale bisogna avere, in primo luogo, la capacità di rassicurare chi ci è vicino per poter giungere a convincere chi ci è più lontano o chi ha perso la fiducia.
Queste parziali riflessioni condotte, peraltro, un po’ in ordine sparso inducono a ritenere che il 2009 sarà un anno ben più difficile di quello che, a prima vista, potrebbe sembrare.
La crisi sarà presumibilmente più lunga del previsto, tanto che per essere realisti bisognerà, come si diceva una volta, chiedere l’impossibile recuperando il senso dell’utopia intesa non solo e non tanto come sogno, evasione o ipotesi mentale, bensì come progetto rivolto all’attuabilità.

Buon anno.




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