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Cure inutili e responsabilità del medico

22/03/14

Non bisogna ingenerare nell’ammalato speranze di guarigione, non supportate da riscontri scientifici che attestino la certezza della cura. Tale comportamento è fonte di responsabilità professionale e quindi generatrice di danno patrimoniale e non.

Quanto sopra riassunto è un passaggio della decisione del Tribunale di Roma del 28.04.2011 che si evidenzia per la rilevanza della colpa medica nell’avere ingenerato nel malato una aspettativa di guarigione con un metodo terapeutico non supportato da dati scientifici certi.
Il paziente affetto da cancro al fegato, dopo ripetuti interventi, a fronte di un quadro clinico apparentemente irreversibile, ricorre ad una terapia alternativa nel trattamento di tumori, non sottoposta a sperimentazione dal Ministero della Sanità. Il medico che effettua il trattamento in una clinica privata a pagamento, esaminato il quadro clinico, rassicura il paziente sulle buone possibilità di guarigione e lo sottopone alla terapia di somministrazione di bicarbonato di sodio mediante angiografia, continuando ad alimentare le speranze del malato, nonostante i successivi referti radiologici siano infausti. Dopo circa un anno di trattamenti, il male non solo non si è arrestato ma è progredito ed il paziente è costretto a sottoporsi ad un nuovo intervento chirurgico.
Si dibatte pertanto sul tipo di responsabilità ascrivibile al medico in sede civile in relazione alla richiesta di risarcimento del danno derivante dall’applicazione di metodi terapeutici che non hanno arrecato alcun danno al paziente.
Atteso che l’elemento costitutivo della pretesa risarcitoria viene ravvisato nell’effettuazione da parte dei medici di interventi invasivi (angiografia) e terapie assolutamente inidonee a determinare un qualsiasi miglioramento dello stato di salute del paziente, i giudici di merito ritengono che il medico deve improntare la propria attività alle regole di diligenza e perizia, come imposte dalla migliore scienza e tecnica sanitaria. Tali regole devono sussistere non solo nel momento in cui pone in essere l’atto medico, ma fin dal primo momento in cui lo stesso medico entra in contatto con il paziente e cioè quando valuta la natura e lo stato della patologia, nonché le scelte terapeutiche da intraprendere in conseguenza. Alla luce di tali osservazioni, non è possibile ritenere che per il solo fatto di aver praticato un trattamento che non ha recato alcun danno al paziente, in termini di peggioramento della malattia, e che è stato correttamente eseguito nelle sue modalità, il medico possa esimersi da colpa. La diligenza infatti andrà valutata con riguardo non tanto all’aspetto negativo della non dannosità, quanto piuttosto con riferimento all’aspetto positivo dell’efficacia della cura. Se è vero infatti che il medico non deve garantire il risultato, comunque dovrà assicurare quantomeno la tendenza verso quel risultato, cioè la potenzialità della cura e la pertinenza del trattamento alla guarigione. Nel caso di specie i medici avrebbero dovuto sapere che la somministrazione di bicarbonato di sodio è del tutto inutile alla cura di un tumore in stadio terminale e per l’effetto avrebbero dovuto evitare di sottoporre il paziente al trattamento. La valutazione in termini di negligenza pertanto, non riguarda tanto l’atto medico in sé considerato ( cioè la somministrazione di bicarbonato di sodio tramite angiografia), quanto piuttosto la scelta terapeutica a monte, di intraprendere una certa cura, in rapporto all’idoneità di quella stessa cura, a realizzare lo scopo perseguito di recupero della salute. Così se è vero che il medico non deve garantire la guarigione, è anche vero che deve assicurare di porre in essere tutto ciò che serve a perseguirla, secondo la miglior scienza ed esperienza del momento storico, astenendosi dal perpetrare trattamenti inutili, seppur non dannosi, anche qualora sia lo stesso paziente a richiederli (art. 13 codice deontologico medico).
24hAvvocati
AVV. GIUSEPPE CAPONE



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