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Ernesto L'Arab – Roberto Pasanisi (a cura di), ‘900 e oltre. Inediti italiani di prosa contemporanea, ICI Edizioni

30/04/10

Recensione a Ernesto L'Arab – Roberto Pasanisi (a cura di), ‘900 e oltre. Inediti italiani di prosa contemporanea (Introduzione di Giuseppe Panella), Napoli, Edizioni dell’Istituto Italiano di Cultura di Napoli, 2005

Ernesto L'Arab – Roberto Pasanisi (a cura di), ‘900 e oltre. Inediti italiani di prosa contemporanea (Introduzione di Giuseppe Panella), Napoli, Edizioni dell’Istituto Italiano di Cultura di Napoli, 2005

Quale può essere oggi il compito della letteratura ma, in definitiva, dell’ ‘umanesimo’ stesso che ad essa principalmente, alle humanae litterae, aveva assegnato il compito di ‘educare’ l’individuo, aiutandolo con la sua funzione di rispecchiamento a riconoscere i tratti essenziali e migliori della sua specie ed a farli propri? Può ancora la letteratura, si sono chiesti gli autori di questa antologia, svolgere il suo compito di ‘umanizzazione’ nella società attuale dominata dall’economicismo, dalla tecnica e, come corollario, dalla pervasività dei moderni mezzi di comunicazione di Massa; tratti distintivi di un mondo che sembra avere avere decisamente ‘svoltato’ in una direzione post-umanistica, se non anti-umanistica, considerato che i chrèmata, la tèchne e non l’uomo sembrano –nuova più dirompente rivoluzione copernicana- essere al centro dell’universo?
«Quando la parola letteraria penetra dentro di te», dice Saul Bellow , «ti cambia l’anima. Questo processo che io chiamo di umanizzazione attraverso la letteratura non sta più avendo luogo, si sta esaurendo.»

La letteratura nella società post-umanistica è considerata, infatti, con l'eccezione di ‘prodotti’ di largo consumo promossi dalla più ampia pubblicità, inutile, se non dannosa, perché la lettura di ‘testi impegnativi’ sottrae all’homo consumens prezioso tempo (non più) ‘liberato’, destinato anch’esso ormai, come quello lavorativo alla liturgia della produzione e del consumo. Il tratto distintivo della società industriale avanzata è quello di potenziare i controlli sociali che spingono a un «bisogno ossessivo di produrre e consumare lo spreco; il bisogno di lavorare fino all’istupidimento, quando ciò non è più una necessità reale; il bisogno di modi di rilassarsi che alleviano e prolungano tale istupidimento; […]. »
Inoltre, la paidèia della predominante cultura visiva ha performato un individuo incapace del necessario ripiegamento su se stessi che è condizione ed effetto del leggere e della cultura visuale alfabetica.

La lettura e in definitiva il processo di riflessione su sé stessi che questa comporta, richiede «solitudine, concentrazione sulla pagina, capacità di apprezzare la chiarezza e la distinzione »; mentre l’homo sentiens , -così Ferrarotti definisce l’individuo che predilige la ‘sensazione’ veicolata dall’immagine, rispetto alla riflessione collegata tipicamente al leggere ed alla cultura scritta-, esibisce caratteristiche del tutto opposte: «La lettura lo stanca […] Intuisce. Preferisce il significato contratto e fulmineo dell’immagine sintetica. Ne è affascinato e sedotto. Rinuncia al vincolo logico, alla sequenza ragionata, alla riflessione […]. »
Ferrarotti descrive, poi, con efficacia quella che è una delle caratteristiche più paradossali dell’odierna civiltà di massa, il convivere, cioè, senza apparente conflittualità di un razionalismo esasperato –nell’accezione, con le necessarie distinzioni, negativa della ‘Scuola di Francoforte - accanto ad un risorto -ma forse: mai tramontato- ‘pensiero magico’.
All’inizio il programma dell’Illuminismo era quello di liberare il mondo dalla magia, cioè di promuovere quel processo di demistificazione, e conseguente ‘liberazione’ dalla magia che Max Weber aveva chiamato «disincantamento» del mondo; al suo culmine la razionalizzazione incoraggiata dalla filosofia dei lumi «è diventata», secondo Horkheimer, «irrazionale e stupida», non solo perché col suo preoccuparsi esclusivamente dell’efficacia dei ‘mezzi’ nella completa indifferenza rispetto ai ‘fini’ ha consentito l’asservimento della natura e dell’uomo alle esigenze produttive ma anche perché, grazie agli effetti di uno dei suoi sottoprodotti più perniciosi, l’ ‘industria culturale’ ha generato un ‘uomo-massa’ incapace di senso critico ed incline ad una lettura ‘esoterica’ del mondo.
È una tendenza bene individuata da Raffaele Simone il quale descrive gli effetti psicologici profondi che sta comportando il passaggio dalla ‘conoscenza alfabetica’, lineare, sequenziale e ‘consequenziale’, logica, ad una conoscenza (conoscenza?) visuale, simultanea, generica, non strutturata. Nel primo caso ci troviamo di fronte ad un uso del linguaggio che lo studioso definisce ‘proposizionale’. Esso è tipico di chi ritiene che l’esperienza debba essere espressa in parole «organizzate in proposizioni,- e che queste proposizioni siano tanto più significative quanto più sono interrelate tra di loro», quanto più, cioè, formano «testi in senso stretto, tenuti insieme da tutte le restrizioni proprie di questo tipo di struttura. » All’inverso, l’atteggiamento ‘non-proposizionale’ è caratterizzato linguisticamente da genericità, vaghezza, da un linguaggio allusivo, che ricorre a «parole generali entro le quali si può includere quello che si vuole». Ancora: tale atteggiamento rifiuta la struttura «oppure usa strutture estremamente semplici; non usa gerarchia alcuna tra le informazioni che presenta, lasciando all’interlocutore il compito di crearsene una. » In definitiva, quello delle nuove generazioni, formate dalla paidèia televisiva è un linguaggio non-proposizionale . All’inverso, il linguaggio preposizionale, «nasce da una frattura drastica rispetto al senso comune. Il senso comune non è affatto la sua base, ma il suo nemico più estremo. Il pensiero e il linguaggio referenziali, strutturati e gerarchici, nascono in spregio e in opposizione al linguaggio comune, e condividono con esso sì e no gli elementi primari – i suoni e le parole (per la sintassi la cosa cambia parecchio).»
È il linguaggio delle nuove generazioni in particolare a manifestare una forte propensione per il non-proposizionale. Cultura giovanile e cultura della scuola sono, da questo punto di vista, agli antipodi, poiché la scuola lavora praticamente da sempre per abituare a denominare, strutturare, gerarchizzare ed analizzare i pensieri, i testi e le frasi. «Non c’è sistema educativo occidentale che non si appelli allo spirito critico, alla necessità di dare parole al proprio mondo interiore e alla propria esperienza» laddove la ‘cultura diffusa’ televisiva e non-proposizionale preferisce l’allusione, l’evocazione indiretta o generica di esperienze condivise; «l’idea che non sia rilevante dare nomi alle cose e tradurre le esperienze in parole e in discorsi, perché le esperienze è molto meglio averle, ricordarle, rievocarle, che raccontarle analiticamente o tradurle in discorsi.» Per questo nella cultura dei giovani di mezzo mondo ha così grande importanza la musica, poiché essa è «qualche cosa di infinitamente più profondo e coinvolgente, è un momento totale della loro esperienza, che li accomuna da una cultura all’altra, e che ha questo di importante: esclude o limita il posto del proposizionale.» Sulla stessa linea si muove Allan Bloom, quando osserva che «con il rock la base dello stare insieme sono le illusioni di sensazioni comuni, il contatto fisico e le formule borbottate che si suppone abbiano un significato che supera la parola. »

Un’altra conseguenza della ‘sovraesposizione’ televisiva e multimediale, della quale non si tiene sufficientemente conto, consiste nel fatto che nella società ‘ipermediatizzata le esperienze sono di seconda mano, consentendo essa, dietro un’ apparente illimitata liberalità, solo un numero ed una tipologia limitata di esperienze (1.2.2); la ‘rappresentazione’ di esperienze innumerevoli, senza censure di sorta, in nome della necessità di informare sullo schermo televisivo, è il desolante surrogato destinato ad appagare l’homo videns. L’assenza di autentiche esperienze impedisce conoscenza autentica: «verum et factum convertuntur», diceva Vico, ricordandoci che l’uomo può conoscere solo attraverso il facere . La qual cosa, Secondo Gehlen , ha gravi conseguenze. Perché ciascuno di noi capisce davvero soltanto le cose di cui ha esperienza diretta, esperienza personale.
Ne consegue che l’homo videns ha sempre meno tempo –e sempre meno voglia- di ‘praticare’ –anche in questo manifestando una rottura con la tradizione umanistica- la realtà della polis, della vita associata, per cercare di conoscerla e, magari, di cambiarla.
Inoltre, quasi tutto il nostro vocabolario epistemologico e teoretico, dice Sartori, consiste di parole astratte che non hanno nessun corrispettivo in cose visibili, o, meglio, se ce l’hanno, non possono di certo essere interamente tradotte nell’oggetto-immagine che évocano. E tutta la capacità che abbiamo di gestire la porzione di pòlis nella quale viviamo, la realtà politica, si impernia esclusivamente sul pensare per concetti che sono entità invisibili, non rappresentabili.
L’odierna ‘società di massa’ punta, in definitiva, ad annichilire ogni resistenza generata dal persistere di senso critico, riflessione, che sono la sola possibilità di salvaguardare la propria peculiare individualità contro la «tendenza all’omologazione dell’intimo a cui tendono tutte le società conformiste. […] Significa che le istanze del conformismo e dell’omologazione lavorano per portare alla luce ogni segreto, per rendere visibile ciascuno a ciascuno, per togliere di mezzo ogni interiorità come un impedimento, ogni riservatezza come un tradimento […]. E tutto ciò […] approda a un solo effetto: attuare l’omologazione della società fin nell’intimità dei singoli individui e portare a compimento il conformismo […] .»
Adorno «accentuava lo stridente paradosso secondo il quale lo stesso apparato dell’industria culturale che estingue la peculiare coscienza privata, finisce in una lode infinita della personalità e dell’individualità. » Ma l’interiorità è ‘oggettivata’ nel senso letterale di ‘oggettualizzata’, nel senso che ‘ciò che si ha dentro’ non viene espresso attraverso la parola, ma mediante l’ ‘ostensione’ di oggetti che la comunicazione pubblicitaria ha stabilito posseggano determinati significati e attribuzioni simboliche.
La stessa esperienza erotica, nella quale l’individuo «manifesta la sua opposizione all’istinto gregario» e respinge «l’influenza della massa» è rappresentata ossessivamente manifestando così, la società attuale, la sua fondamentale ‘scopofilia’ .
Il ‘principio di prestazione’ è sempre più esigente verso il tempo e le energie dell’homo oeconomicus, che non possono più, allora, venire destinati ad Eros, dio esigente e geloso che si oppone all’istinto gregario e all’influenza della massa; ecco, allora, che una generale ‘eroscopia’ , la tendenza, cioè, alla «rappresentazione diretta, verbale e/o iconica dell’atto e delle parti sessuali» , sostituisce gran parte dell’attività sessuale. Parallelamente si assiste ad una «inarrestabile forza di espansione del linguaggio osceno», la quale «va evidentemente riconnessa all’ambito d’una ‘coprolalia collettiva’, conseguenza d’una sessualizzazione d’origine sadico-anale, e quindi regressiva, del linguaggio, nonché d’un generale indebolimento del ‘Super-io collettivo’, così importante nella ‘civiltà di massa’»


Con il concetto di ‘desublimazione’, Marcuse vuole evidenziare la falsa libertà esistente nella società industrializzata: in apparenza non ci sono più tabù, non c’è più repressione, tutto è permesso, quindi non esiste più il bisogno di sublimazione come un tempo. Ma per Marcuse questa liberazione è solo apparente: la sessualità sembra venire liberata, mentre viene semplicemente amministrata con lo scopo di adattare l’individuo alla logica della società.

Il rapporto amoroso era una delle più importanti esperienze formative;
nel privato il singolo sperimentava le leggi generali dell’attrazione e trovava nel rapporto amoroso la strada maestra per l’affermarsi della propria individualità rispetto alla collettività, anche a costo di scontrarsi col super-io collettivo.
L’individuo arriva, ora, al rapporto amoroso già performato da una rappresentazione ossessiva e omologante che impedisce quella riflessione, esplorativa e creativa a un tempo, su sé stessi in dialettica con ‘l’altro’ che permetteva all’individualità di emergere e definire il proprio rapporto con la società, con il mondo.
Quale può, dunque, essere il ruolo dell’opera d’arte in un contesto come quello che si è cercato, certo non esaustivamente, di descrivere. Essa è, sostanzialmente, «una raffigurazione mimetica (che ricostruisca, generalizza, rende evidente ed eleva) dei contenuti che illuminano l’esistenza.» «Le opere d’arte», diceva Adorno, «hanno la loro grandezza nel fatto che lasciano parlare ciò che l’ideologia tiene nascosto. Esse trascendono, che lo vogliano o no, la falsa coscienza. »
La concezione più diffusa che nella società post-industriale si ha dell’opera d’arte, concezione non di rado ripresa e propagandata da istituzioni culturali come la scuola o la stessa università, è quella di considerarla come qualcosa che ‘distrae’ e diletta il tempo necessario per tornare ritemprati al proprio tempo lavorativo; o, magari, come un ‘feticcio’ da consumare ed ostentare come segno di appartenenza – o di aspirazione ad appartenere - ad un preciso status sociale. Ma tale modo di vedere le cose è in effetti il risultato di una ‘repressione culturale’ di contenuti e verità ostili al ‘principio di prestazione’. Di fronte al bello artistico, infatti, l’uomo si sente attratto in direzione di «un’apertura che non ha in vista tanto il raggiungimento di un risultato» -come avviene di norma nella ‘civiltà della techne’ e del ‘principio di prestazione’-, quanto di un «capovolgimento nell’uso abituale dell’esperienza. Nella creazione artistica il capovolgimento dell’esperienza consiste nel fatto che la trasposizione immaginativa non tende innanzitutto a una trasformazione utile del mondo esterno, ma ad una modificazione della propria condizione soggettiva».

L’eclissi del sacro dal mondo contemporaneo; l’amore svilito ed involgarito, inteso come volontà di potenza e di manipolazione dell’ ‘altro’, secondo l’ottica tipicamente ‘neoborghese’ dello sfruttamento dell’uomo sull’altro uomo; la ricerca della ‘Bellezza’ vista come unica possibile via di scampo dagli inferni metropolitani; e ancora: l’amicizia intesa quale comune ricerca di un senso per la propria esistenza, al di là da qualsiasi interesse economico; l’invincibile tendenza dell’uomo all’autodistruzione ed alla prevaricazione sui propri simili: sono questi alcuni dei temi ricorrenti nella presente raccolta.

Non teme confrontarsi con la stretta attualità (la seconda guerra irachena), Cristina Amedeo che nel titolo di uno dei suoi racconti, Danni collaterali, riprende polemicamente, allo scopo di demistificare l’ipocrisia oscena che ammanta il linguaggio del potere, l’espressione usata durante il conflitto per indicare la perdita di vite umane. Della guerra sono messi in scena gli effetti concreti, l’evidenza sensibile della distruttività mortifera sperimentati da un combattente: il fango, la polvere, il sangue, le ferite, sulla scia di una tradizione di iconoclastia anti-guerresca che ha i suoi antecedenti più illustri in Stendhal (La Certosa di Parma), Stephen Crane (Il segno rosso del coraggio), Remarque (Niente di nuovo sul fronte occidentale ) . La focalizzazione esterna scelta dall’Amedeo, di evidente ascendenza naturalistica, colloca il racconto, anche per gli esiti in ultima analisi impressionistici di taluni brani, nella scia della narrativa hemingwayana; pensiamo, in particolare al racconto: Piccola storia naturale: i morti, in cui il maestro nordamericano dissacra la mistica della guerra denunciandone la natura antieroica e di sordido mattatoio umano.
Influssi della letteratura minimalista post-hemingwayana carveriani , in particolare, sono altresì rintracciabili nel racconto Il colloquio, in cui una vicenda di ordinaria prevaricazione del capufficio ai danni di un impiegato è tutta modulata sul dire e non dire, in un uso efficacissimo del dialogato, intessuto di reticenze, di sottili minacce del superiore e di pavidi, abortiti a fondo del sottoposto. L’Amedeo mostra il volto ‘consueto’, ‘quotidiano’ di un potere, quello burocratico, non per questo meno disumano ed inquietante.
Seguendo le tracce, di Lidia Are Caverni ha come protagonisti un cacciatore ed il suo cane durante una battuta. Ma quello che sembrerebbe un quadro di felicità agreste e la descrizione della simbiosi uomo-animale tratteggiati col felice spirito d’osservazione di un Turgenev (Memorie di un cacciatore) si rivelerà, invece, un’avventura drammatica. Neanche la natura, sembra suggerire l’autrice, nella quale l’uomo crede potere recuperare le sue più autentiche energie vitali, riesce a preservarlo da un destino di autodistruzione e di morte.
Ne L’affittacamere, Enrico Bagnato rivisita con ironia, in uno stile di fluente musicalità, contrassegnato da un sapido impasto linguistico che gaddianamente fonde espressioni dialettali e lingua letteraria, un topos letterario di antichissima –si pensi alla petroniana «Matrona di Efeso »- e gloriosa tradizione: quello della vedova di apparente inconsolabilità che cela dietro un pur tenue velo di ritrosìa, una sensualità avida e inesausta.
Un apologo, ma un vero e proprio exemplum morale alla rovescia, che contrappone alle beatitudini celesti del perdono cristiano la feroce gioia della vendetta terrena, è il racconto: L’uccellaio. Un uomo ritrova dopo molti anni il vecchio uccellaio che, accusandolo di volergli rubare dalla bottega qualche volatile, l’aveva umiliato da bambino e dentro di sé gioisce per la presente infelicità del vegliardo, offeso dalla decrepitezza senile ed umiliato da una consorte manesca.
Una letteratura che non teme cimentarsi con le ‘cause prime’, quella di Rebecca Balestra. In La geisha, protagonista è un’enigmatica figura di donna, sacerdotessa di un culto della bellezza di cui perpetua gli antichi rituali nell’indifferenza del mondo. «Un tempo», dice costei, «gli uomini conoscevano la bellezza ed erano vicino agli dei per la perfezione dei loro pensieri.»
Ne Il pope Ioannis e Santa Anastasia, un monaco, particolarmente devoto di una santa icona, constata un giorno che la santa raffiguratavi, Anastasia, ne è discesa per tornare a contemplare le bellezze terrene. «Neppure ai santi», rivela costei al pope stupefatto, «è concesso di conoscere la causa prima di tutte le cose». Il ricorso a mitemi e a raffinate simbologie – che pure non sovraccaricano il racconto – e al tempo stesso l’ambientazione esotica, ma di un esotismo dall’ eruditissima e puntigliosa accuratezza, rivelano gli influssi di Borges e del ‘realismo magico’ sudamericano.
Gianni Bartocci è autore di Fatti di cronaca e di Il passero in biblioteca. I racconti di Bartocci, pur se in apparenza ‘realistici’, sono caratterizzati, in realtà, da un iperrealismo allucinatorio ed onirico. L’autore notomizza la realtà e ne fa l’anamnesi con scientifico spirito di osservazione; ma il risultato è quello surreale di un quadro di Magritte. Lacerti del quotidiano, oggetti usuali riprodotti con maniacale precisione acquisiscono, disancorati da riconoscibili coordinate spazio-temporali, significati nuovi ed inquietanti. L’arte di Gianni Bartocci, la cui cifra è l’iperletterarietà, presenta, a nostro avviso, affinità con quella corrente pittorica definita ‘post-moderna’ da Achille Bonito Oliva. L’arte, come teorizzato dallo stesso Bonito Oliva, mentore del gruppo di pittori, nell’epoca della tecnica e della riproducibilità seriale, ha come suo compito primario – non esclusivo, certo, ma primario – quello di affermare, tautologicamente che c’è, che esiste come qualcosa di diverso e di separato rispetto al tecnologico ed al riproducibile. Di qui: - ed è appunto il caso dell’autore- l’alto magistero tecnico degli artefici ed il continuo riferimento di quest’arte a sé stessa; a quella gloriosa tradizione passata che è vista dai ‘citazionisti’ come iperuranico, a-storico modello di bellezza assoluta, la quale si pone come ‘l’altro-da-sé’, rispetto all’industria culturale, produttrice di merci artistiche di facile ed immediata riproducibilità e consumo .
Accenti dostojevskjiani è dato cogliere nel romanzo di Vittoria Bartocci Salvato: La rivoluzione solitaria di Marianne, in cui la protagonista, ‘demone’ post-moderno, esegue per conto del suo fidanzato, Sigsmund, un attentato dinamitardo, in nome di un non volutamente precisato ideale rivoluzionario. L’amore esigente e severo di un sant’uomo che incontrerà sulla sua strada, padre Barnard – e il nome non è casuale –, non basterà a ‘curare’ il cuore della donna e a redimerla.
Dietro gli stilemi della science-fiction, con il suo inevitabile corredo di astronavi e pianeti misteriosi, Antonietta Benagiano appena cela, in Farabutti, un desolante ritratto della ‘civiltà’ contemporanea, corrotta, dominata dal denaro e da una burocrazia pervasiva ed opprimente che fa valere le sue regole assurde e disumane solo sui più deboli. «Erano, in realtà, frutto di interessi egoistici, della brama di appropriarsi di as [denaro, n.d.r.] a dismisura, di una certa dimenticanza da sempre tanto diffusa tra gli antropi, la quale porta a trascurare una considerazione fondamentale che eviterebbe tanti disastri: ed è che Bios a nessuno concede repliche.» Molto acuta è la descrizione di quel generale cedere della ‘morale collettiva’ ad una complice, accidiosa, convivenza con il malcostume diffuso che troppe volte è dato sperimentare nella vita quotidiana: «In Astero511[il pianeta in cui si svolge la vicenda, n.d.r.] , e non solo in esso, s’andava infatti potenziando un male antropologico. S’era assistito, nel corso delle ere, al crescere dello scempio, senza che comparisse, neppure tra coloro che lo rilevavano negativamente, un deciso spirito di coalizione contro di esso. In fondo a chi importava veramente? A ben pochi. Ciascuno riteneva di potere trarre, prima o poi, vantaggi anche per sé. »
In: Ansiosa attesa, Teresa Bracuti Fratino racconta con uno stile intenso e controllato, di un’Italia contadina scomparsa, nella quale le numerose difficoltà non intaccavano la gioia di vivere. Il ricordo della scrittrice va ad un episodio della sua infanzia: la morte repentina ed inattesa di una sorellina a causa della pertosse. Pure in chiave autobiografica è la novella: Giorni che non potrò dimenticare, nel quale l’autrice riesce a rendere con un’esemplare economia di mezzi, il ‘sapore’ del ‘tempo perduto’: quello di un Italia contadina prima del grande mutamento antropologico degli anni ’60 e ’70.
Protagonista del romanzo Giovani prede, di Elena Bresciani Baldi, è Lulu, adolescente di fascinosa ingenuità che il suo ‘predatore’, forte del prepotere di adulto e di uomo ricco sottrae alla famiglia, povera e numerosa, per farne l’amante di una notte.
Lulu scoprirà che nel mondo dei ‘grandi’ nel quale è entrata suo malgrado l’ ‘amore’ – ma in quanto caricatura avvilente del sentimento che ella vagheggiava – è prevaricazione, volontà di potere del forte sul debole; e che persino la solidarietà, il senso di protezione che si aspetterebbe dagli altri adulti per la sua infanzia insultata non è che l’inane, codardo e in definitiva complice pietismo per il suo destino di vittima.
L’arrivo di una famiglia ebrea in un campo di concentramento nazista, - il momento della selezione che gli aguzzini fanno, dividendo gli abili e gli inadatti al lavoro, gli uomini e le donne, i bambini e gli adulti- domina il brano tratto da Due rose per Rachele, stilisticamente segnato da un’asciuttezza che, non indulgendo al patetico, accentua la drammaticità del narrato. Ancora, quindi, una storia che verte sulla prevaricazione e sul potere assoluto degli uomini sui propri simili, per motivi ideologici e razziali, questa volta, e su uno sfondo storico più ampio del precedente romanzo.
L’amore è anche al centro di due brevi novelle di Loredana Capellazzo. In Guerriero, una giovane coppia scopre di potere rivitalizzare un rapporto esausto aprendolo, religiosamente, all’amore per gli altri, inteso come impegno per le popolazioni sofferenti e per gli ‘ultimi’.
Come sempre fuori piove, pone a confronto due modi differenti di intendere l’amore di coppia: quello quasi sacralizzato, fatto di reciproca, stupefatta – di uno stupor che è reazione emotiva al manifestarsi del ‘sacro’- dedizione fra due giovanissimi (l’io narrante ed il suo uomo, R.), da un lato; e, dall’altro, quello fra due adulti (la madre di R. ed il suo amante) che è basato, invece, sull’interesse economico della donna e sui volgari appetiti sensuali di lui. A soccombere, vittima di un destino infausto, sarà la prima coppia: come in un racconto mitico gli dei preservano il giovane dalla malvagità del mondo chiamandolo presso di loro. Pluto, nella civiltà neocapitalistica, sconfigge il dio un tempo il più potente e temuto: Eros; e questi si ritrae sconfitto, si eclissa da un mondo che non ha saputo e voluto accettarlo.
Il ricordo di una giornata trascorsa da bambina al mare, con i genitori, diviene, ne Il mago, la fata e il lungomare di Salerno, un’immagine idealizzata, luminosa – il padre e la madre assurti a sacri custodi di forze misteriose e benigne, simboleggiate dalle «acque procellose» - che l’io narrante custodirà nella vita adulta come mito fondativi, apportatore di benefiche energie rigeneratrici.
Un’altra immagine – demistificatrice, in definitiva – dell’infanzia, è quella suggerita ne Il portico, da Arnold De Vos. «Il mito dell’infanzia», dice l’autore, «è invenzione degli adulti».
Un racconto-non racconto tutto introspettivo, quello di De Vos, che palesa istanze auto-analitiche consonanti, negli esiti, con la migliore tradizione del romanzo psicologico europeo, da un lato (di matrice proustiana è, per dire, la ricerca del nesso: infanzia-pulsioni omoerotiche-poesia); e, dall’altro, suggestioni liriche ed un linguaggio di gnomica e folgorante espressività:
Un incipit di sapore carveriano apre il racconto Un pugno di mosche, di Enza De Carlo, nel quale un uomo guarda ai fallimenti della propria vita senza traccia di autoindulgenza. Il monologo del protagonista oscilla stilisticamente tra fredda oggettività quando ritrae la sua situazione presente, e momenti di intenso lirismo quando, invece, ripensa a ciò che avrebbe potuto fare e, per inanità, per egotismo non ha fatto per opporsi alla sua rovina. «E quando il mio tremendo Dio», è lo stupendo epilogo, «mi domanderà che cosa ho fatto di buono io risponderò: niente; e se avrò lacrime, piangerò con la miseria nel cuore, con i ricordi appesi come lenzuola».
Maura del Serra sceglie la strada, non molto spesso praticata nelle lettere italiane, degli aforismi. Svariati gli argomenti: dalle ragioni ultime delle cose e dell’esistenza umana all’arte; dalla poesia al linguaggio; dall’infanzia all’amore. La Del Serra scrive in uno stile argomentativo ed icastico al contempo, che senza mai scadere nel loicismo compiaciuto o nell’involuta oscurità –rischi sempre presenti in questo genere letterario-, risolve con orecchio da poetessa il movimento speculativo del periodare in una polifonica musicalità dalle suggestive risonanze liriche.
Un giovane si reca ubriaco alla festa nuziale della donna che ha rifiutato suo fratello e per vendicare l’onore familiare umilia la sposa e, nella codarda apatìa dei presenti consapevoli della sua notoria malvagità, ne percuote il marito. Quella che parrebbe una vicenda di rusticana, arcaica ferocia diventa, nel racconto Un’altra indole di Ioan Dumitru Denciu, il pretesto per costruire una sofisticato gioco di specchi nel quale diventa difficile distinguere tra sogno e vita reale.
L’ellissi, o, più propriamente la ‘reticenza’, la rimozione, cioè, di un elemento fondamentale della narrazione proprio per sottolinearne l’importanza nell’economia del racconto è un espediente che ha avuto nello scorso secolo fra i suoi massimi teorici, Ernest Hemingway. Fornire al lettore solo alcuni elementi indispensabili della vicenda e lasciare che la ricostruisca da sé nella sua interezza e in tutte le sue possibili implicazioni rafforza la necessaria ‘sospensione dell’incredulità’. Leggendo la narrazione egli deve interpretare i fatti senza la sicurezza di essere nel giusto, in un continuo sforzo di decodifica semiotica, come gli capita di fare nella vita di tutti i giorni. L’autore, come un dio crudele si eclissa e lascia il lettore solo con la sua intelligenza di fronte ai fatti.
In Wintertale, Gabriella Ferrantino applica magnificamente la lezione dello scrittore americano raccontando la momentanea (o definitiva?) crisi di un rapporto di coppia per un appuntamento (volutamente?) mancato da lui (fidanzato? Ma allora perché lei si vergogna di salire nel suo studio; Amante, allora?). Anche la conclusione è ellittica: «Digitò il numero. La voce che dalla sua gola si rovesciò nella segreteria telefonica non le apparteneva.». Un rapporto troncato definitivamente? Lo screzio usuale e senza seguito di due innamorati che si riconcilieranno? Notevole è anche la scrittura di un dialogato che riecheggia stilizzandolo il parlato quotidiano.

17) Asteria Fiore

Campagna marchigiana, di Giuliana Gaggiotti, è ambientato nelle Marche del 1880. Una coppia di giovani sposi trascorre l’attesa della prima figlia, occupandosi con serenità dei consueti, necessari lavori nei campi. Il parto suggellerà un quadro di armonia familiare descritto con sobria e toccante intensità.
L’interesse per quella che potremmo – pasolinianamente – definire ‘civiltà del pane’ ritorna in Acqua che scorre dove una fanciulla durante la lavatura dei panni in riva al fiume, scopre con sgomento le prime avvisaglie della femminilità incombente. La scrittrice possiede la rara capacità di descrivere credibili psicologie infantili, come in Ciccillo, ‘scugnizzo’ dei Quartieri Spagnoli che, nonostante nel repertorio di espedienti ‘creativi’ che utilizza per stemperare la povertà della sua famiglia annoveri anche il furto, custodisce intatte doti di umanità, lealtà, coraggio (qualità apprezzata in sommo grado dai bambini, come dimostra di ben sapere l’autrice), amore e, in definitiva, di moralità.
Il protagonista di Un incontro, di Raffaele Ganguzza, conosce una donna dalla personalità fascinosa e di profondo sentire ferita dalla volgarità di uomini che non l’hanno saputa amare, e ne rimane conquiso. Il rapporto fra i due percorrerà la via del reciproco arricchimento spirituale, in contrasto col modello amoroso dominante che indulge ad una sensualità da ‘consumare’, un partner via l’altro, nella sostanziale indifferenza per ‘l’altro’, in una parodìa superficiale e frettolosa dell’ autentico amore.
Le speranze, le ambizioni, i desideri della fanciullezza e la disperazione che segue la disillusione, -tanto più aspra questa, quanto assoluti e sublimi erano stati quelli- sono al centro di «Viaggio d’andata», del poeta e narratore, scomparso giovanissimo, Gianmario Gatti. Pressoché priva di intreccio, nel recupero di una tradizione primo-novecentesca (particolarmente vociana) che fa del ‘frammentismo’ lirico, del ripiegarsi dell’io in un’autoanalisi ‘impressionistica’, la sua cifra stilistica, quella di Gatti è la ‘storia’ di un’anima, tanto più straziante poiché essa è posta dinanzi al mondo nella sua fragile –impavida ma indifesa- adolescente nudità.
Non mancano in questa raccolta tentativi di narrazione in linea col cosiddetto ‘neo-romanzo storico’, anche se in una direzione consapevolmente ‘manieristica’ (Ernesto L’Arab, Il segno).
Frammenti, apologhi – ma una sorta di veri e propri midrash dalla grazia folgorante, dall’epilogo inatteso –, incentrati tutti sul tema dell’infanzia sono i Puerilia di Maria Rosaria Luongo. Una maestra inorridisce nel sentire che un’ alunna immagina il proprio futuro dietro il banco di un salumiere, anziché nello studio professionale dei genitori. La ‘magia’ e la bellezza dell’infanzia misconosciute e rinnegate da ‘grandi’ ansiosi di contenerla, di controllarne la carica eversiva, riconducendola entro gli schemi, tipicamente adulti, del ‘dovere’, dell’impegno – varianti bambine del francofortese ‘principio di prestazione’.
La crisi di mezza età aggrava il pessimismo di una scrittrice inducendola a propositi suicidi di cui rimanda l’attuazione perché convinta da sua madre a curarsi ai bagni termali una sciatalgia. Col procedere della cura si dissipano le fantasie di autodistruzione lasciando spazio ad una rinnovata voglia di vivere (e di scrivere). La donna ritroverà, nel rinnovato contatto con la madre-terra – simbolica reimmersione negli umori uterini, motivo archetipico di chiara ascendenza junghiana- energie rigeneratrici inattese ed una rinnovata voglia di vivere. Non a caso, auspice della cura è stata la madre (in carne ed ossa) della protagonista, che cela dietro un vieto buon senso, l’aura sapienziale d’una sacerdotessa ctonia. Ella sa in virtù della sua semplice fede ciò che all’intelligenza della figlia non è dato sapere: ‘razionalità’, ma la rapace forza che vuole possedere il mondo per dominarlo, è il nome stesso della malattia che possiede sua figlia. Ancora una volta, la Marcone mette in scena il rapporto di solidarietà profonda e misteriosa che, al di là di episodici screzi, unisce le donne in una sorta di esclusivo ‘cerchio magico’, precluso al genere maschile.
In Aria…repressa, si esprime al meglio la vena grottesca e paradossale della scrittrice che analizza, in modo disincantato e corrosivo, come uomini e donne si differenzino anche nell’emissione di gas intestinali. Il racconto, una sorta di scherzosa-non-troppo antropologia del peto, mette a confronto le emissioni maschili, perentoria, pubblica ed orgogliosa rivendicazione di autorità virile, con quelle femminili, voci flebili e sommesse, destinate ad essere occultate –e a restare, quindi, inascoltate- fuori dello spazio domestico.
Con Quel che resta dell’ “Orsa Maggiore”, Emiliano Moccia conferma la capacità già dimostrata nelle sue prime, felici opere d’esordio, di ritrarre in modo ironico e, al tempo stesso struggente, quel particolare periodo della vita umana posto al confine fra adolescenza e prima giovinezza. Non vi è tuttavia traccia della vieta retorica giovanilistica che troppo spesso prende la mano di scrittori meno avvertiti. La fantasia vivace, la capacità di restare sempre sulla superficie delle vicende e dei personaggi – grande pregio, per un autore di racconti – senza appesantire il narrato con ridondanti analisi psicologiche (ma un’acuta capacità di penetrazione psicologica, Moccia rivela nel cogliere un atteggiamento, un gesto, nel rendere l’ ‘atmosfera’ d’un incontro tra amici) ; la capacità rarissima di rendere in modo credibile il parlato dei giovani, senza ricorrere ad una gergalità manierata; lo stile rapido e incisivo, incline a traslazioni impercettibili dal realistico al fiabesco, di calviniana levità: fanno di Emiliano Moccia uno dei più interessanti autori di racconti brevi della sua generazione. Quando le sue doti di osservatore si appuntano, poi, su certi fenomeni sociali mai tramontati come lo snobismo , la voglia di apparire quello che non si è, le capacità satiriche dell’autore lo avvicinano negli esiti alla narrativa breve del primo Fitzgerald.
Il funerale di un bambino Rom, malato da lungo tempo per effetto, secondo i suoi parenti, di un fato ostile è l’argomento di Sotto una cattiva stella scritto da Marco Nieli. E sembra ritrovare certe atmosfere di alcuni racconti Čecoviani, quelli di viaggio in plaghe remote della Russia, nei quali il ‘civilizzato’ osservatore scopre, inaspettato e scandaloso, il mondo ‘altro’ di popolazioni sofferenti ed abbrutite dalla miseria; sembra risentire la disperazione irredimibile degli hemingwayani Racconti di Nick Adams, nei quali un medico e suo figlio si recano nelle ‘riserve’, veri ‘ghetti’ ante litteram dove sono reclusi fra alcoolismo e suicidio i ‘nativi’ definitivamente sconfitti. Ma non vi è compiacimento letterario nella scrittura di Nieli e la materia autobiografica da cui nasce il racconto lo rende di una straziante e ‘scandalosa’ bellezza. Il destino da ‘paria’ dei Rom, ne fa l’esempio più ‘vicino’ e tragico di quella “segregazione della non ragione” con la quale una società borghese falsamente pacifica e tollerante allontana e crudelmente vessa, con la neanche tanto segreta volontà di annientarlo, l’ ‘altro da sé’.
Con intenso lirismo, in un linguaggio di icastica espressività, Roberto Pasanisi racconta, in L’ultima donna, dell’incontro soterico che il protagonista, poeta imprigionato come l’albatro baudelairiano fra gli orrori della modernità, ha con una donna d’aurale avvenenza – in definitiva: con la ‘Bellezza’ stessa.
Torna, nel racconto, un tema caro al Pasanisi saggista: quello dell’omologazione di femminilità e mascolinità, promossa non tanto perché trionfasse una, peraltro sacrosanta, parità di diritti; ma allo scopo di sottomettere la donna – processo cominciato, per Benjamin, già nel XIX secolo –, nel processo della produzione mercantile, col conseguente svilirsi e involgarire della sua femminilità.
L’Io narrante incontra, dunque, al termine di una lunga crisi, la donna in cui ravviserà l’angelus benjaminiano a lungo vagheggiato. L’incontro, ma potremmo dire: la ‘teofania’, avviene ironicamente in banca, nel sancta sanctorum, cioè, di una religione, quella capitalistica, non certo incline a porre la ‘Bellezza’ fra le divinità cui rendere tributo. Ma il protagonista si arresterà, in un certo senso, sulla soglia del tempio – lo spazio semiotico del racconto è articolato in una serie di coppie oppositive ‘dentro’ vs ‘fuori’; ‘alto’ vs ‘basso’; ‘al di qua’ vs ‘oltre’. Preferirà, cioè, non approfondire la conoscenza della ragazza, bastandogli serbare dentro di sé la sua immagine salvifica; poiché percepisce che ella è, in fondo, strumento inconsapevole del quale ‘il sacro’ si è servito per rivelarglisi e che esso deve essere contemplato – non ‘capito’, non analizzato – alla giusta distanza perché non si eclissi definitivamente.
Si individuano nel racconto due campi semantici fondamentali: ‘terra’ vs ‘acqua’, il primo dei quali ha valenza generalmente negativa. L’io narrante è all’inizio ‘imprigionato’ all’interno di una grotta – crisi e regressione nel simbolico utero della madre-terra, ambivalente prigione/rifugio – dalla quale cerca di uscire per recarsi in superficie, dove ha intravisto le onde del mare (acqua come montaliana promessa di salvezza).
E l’elemento acquatico è un po’ la chiave di lettura del racconto. Il movimento delle onde marine è suggerito a livello melo-simbolico fin dall’incipit della narrazione, nel periodare ampio e disteso dall’armoniosa cadenza. Le donne che il protagonista osserva in banca hanno le movenze di «equoree creature» di dannunziane undulne. La grazia femminile è resa cinesicamente, col descriverne le ondulate movenze di oceanidi danzanti: «lei rise con gusto, reclinando la testa all’indietro[il corsivo è nostro]»; «un movimento leggero della testa fece aprire i capelli a raggera»; «la sua sagoma sembrò fluttuare», e così via, in un’atmosfera che sembra risentire dell’estetica preraffaellita .
In chiave parodistica è scritto il racconto Sotto le stelle del Messico nel quale è raffigurato un west cinematografico (Pasanisi è appassionato conoscitore di cinema), più che letterario.
Sul ponte dei sospiri è un brevissimo frammento lirico ancora una volta incentrato sull’incontro fuggevole e rigenerante con la bellezza femminile.
Non manca, come il lettore avrà già verificato, in questa antologia, il riferimento alla ragione ultima delle cose: alla fede. È anche il caso di Erminia Passannanti che ne La chiesa di Dio degli ultimi giorni affronta, con stile ‘alto’, influenzato da una evidente frequentazione di testi filosofici e religiosi, – che tuttavia non snaturano la qualità fondamentalmente letteraria dello scritto – il problema della presenza del ‘sacro’ nel mondo contemporaneo.
Un condensato Bildungsroman, vero e proprio romanzo di formazione, è quello delineato in Una strada in salita, da Giuseppina Pauciullo Della Valle. In uno stile contrassegnato da un periodare ampio e che conserva, tuttavia, la freschezza del parlato, l’autrice racconta la vita difficile di una donna a partire dagli anni dell’infanzia, vissuta fra le due guerre mondiali, fino alla maturità, contrassegnata dalla perdita della madre e poi del marito. Alba, questo è il nome della protagonista, troverà, fra le difficoltà di una vita, appunto ‘in salita’, intatte riserve di energia nella fede religiosa, frutto di lontani, mai dimenticati insegnamenti ricevuti negli anni dell’infanzia.
Al di là, oltre il tempo, di Natalizia Pinto, è racconto ‘intessuto della materia dei sogni’, nel senso che la cifra stilistica della Pinto è quella di un ‘lirismo visionario’, nel quale il linguaggio viene ‘decostruito’ e creativamente rimontato per ‘suggerire’ all’inconscio del lettore, più che ‘parlare’ alla sua razionalità. In «Realtà e immagine», una donna, incontra fortuitamente l’uomo che ha visto raffigurato sulla copertina di un libro, nella vetrina di un negozio. Anche in questo caso, come nell’altro racconto, «felpa e rasoio», l’atmosfera ha un che di onirico e di fiabesco, per l’apparente incongruità di certe situazioni e per il riproporsi di simboli archetipici che rimandano alle teorie psicanalitiche junghiane.
Il tempo piccolo della memoria di Dio, di Cesare Maria Domenico Ranieri, conferma l’ispirazione sostanzialmente lirica di questo prolifico e interessantissimo poeta. Il periodo breve, sincopato, diviene unità minima di significato, nella sua assolutezza – letteralmente: mancanza di legame rispetto al rimanente testo – sulla scia della mitizzata ‘poesia pura’, quasi si trattasse di un verso del primo Ungaretti o, per risalire a colui che di essa è stato il più antico e lucido teorico, come fosse un brano delle Illuminazioni di Arthur Rimbaud.
Saverio Rollo è un altro scrittore ‘giovane’ presente in questa antologia. L’autore che in Valentina , conte philosophique ispirato a modelli letterarî alti - Edgar Allan Poe -, aveva dimostrato grande capacità di osservazione psicologica e sociale nel descrivere il degrado del rapporto amoroso, che anche fra due giovanissimi e al di fuori del matrimonio è contaminato dal peccato originale della società ‘neo-borghese’: la volontà di dominio sugli altri; questo autore, si diceva, continua a perseguire, e con esiti assai felici, un’ideale di letteratura in cui una lussureggiante immaginazione ed una vigile coscienza stilistica si coniugano con una raffinata struttura razionale e filosofica di derivazione –mediata ancora da Poe – illuministica .
Ne La chambre, di Marina Romano, Mark ed Elena, due giovani legati da un intenso rapporto erotico, si chiudono in una camera d’albergo, a Parigi, per amarsi liberamente. Ma Elena scoprirà di non potere essere completamente felice se non arriverà a possedere ‘interamente’ l’amato, restìo a concedere altro che il suo corpo. Il finale, perfetto nelle sua perentoria imprevedibilità, sarà drammatico.
Remember e Impronte sono due racconti di Maria Paola Spagliardi. Remember è una suite di ricordi: un succedersi di immagini che l’Io narrante attinge dal proprio passato: «La cucina possedeva ampie finestre e un originale pavimento di mattoni color pastello, al centro della stanza era sistemata una vecchia stufa a legna con le formelle di ceramica blu.» L’autrice non ‘enuncia’ le proprie emozioni ma, impressionisticamente, addita al lettore, pone di fronte al suo sguardo interiore, le ‘cose’ –le immagini- che quelle emozioni le hanno fatto provare perché egli stesso le sperimenti, come esemplificato nella splendida chiusa: «Questa sera, come allora, mi sembra di vedere brillare gli occhi di Gino. Una girandola di pagliuzze dorate perse nel blu profondo delle sue pupille». In Impronte, l’autrice riesce a comunicare una sensazione tattile: quella del camminare su una strada sassosa: «Il mio piede calza solo scarpe comode, allacciate con le stringhe lunghe e bianche. Senza tacchi, di nappa morbida, con l’interno imbottito come gomma piuma, che si adatta alle estremità. Così la mia scarpa porta il mio piede in giro per il mondo. I miei piedi percorrono lunghi tratti di strada sterrata, calciando sassi e ciottoli, schiacciando polvere e ghiaia.» Dopo avere portato così abilmente il lettore sul terreno di una sensazione comune, universalmente provata, cosa che acuisce in lui la sensazione di familiarità con l’autrice, che gli dà illusione di camminarle accanto, disposto ad ascoltarla come una voce amica: Spagliardi è pronta a condividere il suo pensiero che diventa anche quello del lettore perché l’idea del trascorrere da anonimo, e un giorno dimenticato, la vita su questa terra è timore universalmente condiviso: «L’impronta della mia scarpa è nitida e il passo resterà anonimo, forse, tra le altre migliaia di orme sulla terra.»
Luciana Tagle è l’autrice di tre racconti di compiuta, fulminante brevità. In Paolo e Francesca, due anziani si conoscono in una chat-line, celandosi dietro le false identità: lui,di Francesca, e lei di Paolo; e trovano nel dare vita e sentimenti alle due creature fittizie, la vera consolazione di un’esistenza ormai avara di emozioni. In «Regina Pacis», racconto di una sola pagina, è descritto, con britannico understatement, sullo sfondo di un giardino dalla lussureggiante vegetazione, un funerale. L’effetto straniante è dovuto alla levità del tono adoperato ed al fatto che la bara sia considerata, nell’economia generale del racconto, un elemento ‘di sfondo’ come qualsiasi altro. Terry, anch’esso brevissimo, narra dell’innamoramento di un uomo per una farmacista, nella quale gli è parso ravvisare le fattezze di una nonna molto amata.
Antonella Tretola racconta, in Fra passato, presente e futuro, la fine di un intenso amore fra due giovani: Jean-Luc e Colette. Si tratta di un amore ‘sbilanciato’, fra una donna che ama troppo ed un uomo che, invece, non è in grado di concedere tutto se stesso, in nome di una libertà che, lascia intendere l’autrice, non è altro che avarizia di sé ed egoismo,
Ci pare, in conclusione, potere dire che gli autori presenti in questo secondo volume di Novecento e oltre, abbiano saputo rendere, talora con straordinaria efficacia, alcune caratteristiche salienti dell’attuale momento storico, dimostrando, ove ancora fosse necessario, quale straordinario e lungimirante strumento conoscitivo, ed ‘emancipativo’ potrebbe essere la letteratura per l’homo oeconomicus, se solo fosse disposto ad ascoltarne il canto rivelatore. Ma egli, come Ulisse, «ode il canto, ma è impotente, legato all’albero della nave, e più la tentazione diventa forte, e più strettamente si fa legare, così come, più tardi, anche i borghesi si negheranno più tenacemente la felicità quanto più –crescendo in potenza- l’avranno a portata di mano. Ciò che ha udito resta per lui senza seguito: egli non può che accennare col capo di slegarlo, ma è ormai troppo tardi: i compagni, che non odono nulla, sanno solo del pericolo del canto, e non della sua bellezza, e lo lasciano legato all’albero, per salvarlo e per salvare sé con lui. Essi riproducono, con la propria, la vita dell’oppressore, che non può più uscire dal suo ruolo sociale. Gli stessi vincoli con cui si è legato alla prassi, tengono le Sirene lontano dalla prassi: la loro tentazione è neutralizzata a puro oggetto di contemplazione, ad arte. L’incatenato assiste ad un concerto, immobile come i futuri ascoltatori, e il suo grido appassionato, la sua richiesta di liberazione, muore già in un applauso. »

Ernesto L’Arab











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