ECONOMIA e FINANZA
Comunicato Stampa

Horribilis Annis

14/06/13

Secondo i dati Unioncamere, le imprese che hanno chiuso in Italia nel 2012 sono state 364.972, cioè 1000 al giorno.

Secondo i dati Unioncamere, le imprese che hanno chiuso in Italia nel 2012 sono state 364.972, cioè 1000 al giorno.
E ne sono nate solo 383.883, 7.427 in meno rispetto al 2011 e comunque il valore più basso degli ultimi 8 anni. Con un incremento di + 24.000 unità cessate o fallite rispetto il 2011.
Come conseguenza, il saldo tra entrate e uscite si è attestato sul valore di 18.911, il secondo peggior risultato del periodo considerato e vicino a quello del 2009, l’anno peggiore dall’inizio della crisi. per cui, considerando anche le cancellazioni delle imprese ormai non operative da più di tre anni, al 31/12/2012 lo stock complessivo delle imprese esistenti ammontava a 6.093.158.

Secondo l'ufficio studi della Cgia di Mestre, il 2012 ha visto un vero e proprio boom di protesti e sofferenze sul fronte PMI. Addirittura una su due non riesce più a pagare regolarmente gli stipendi ai propri dipendenti ed è costretta a rateizzare o dilazionare i pagamenti, a causa della mancanza di liquidità.
Dall'inizio della crisi, i titoli di credito che alla scadenza non hanno trovato copertura sono cresciuti del 12,8%, mentre le sofferenze bancarie in capo alle aziende hanno fatto registrare un'impennata del +165%.
Alla fine del 2012 l'ammontare complessivo delle insolvenze ha superato i 95 miliardi. Queste tendenze, secondo l'analisi dell'Ufficio studi della Cgia, dimostrano che l'aumento dei protesti bancari ha sicuramente concorso - assieme al calo del fatturato e al "blocco" dei pagamenti da parte della pubblica amministrazione - a "mandare in rosso" i conti correnti di svariati imprenditori, non consentendo a molti di questi la possibilità di pagare puntualmente i propri debiti nei confronti di banche, leasing e fornitori.
Ovviamente i dipendenti di queste aziende non se la passano meglio, ed infatti a febbraio 2013 il tasso di disoccupazione è schizzato all’11,6% pari a quasi 3 milioni di disoccupati, un dato che ci riporta al 1999. E la cosa ancora più drammatica è che sono 606.000 i giovani (16-24 anni) in cerca di lavoro, pari al 36,6%.

Ma tutto questo è solo frutto della crisi?
Se sul fronte occupazione, oltre alla crisi, occorre registrare anche l’effetto negativo della riforma Fornero, soprattutto sul fronte dei giovani, resta il fatto che l’Italia, in realtà, non cresce da oltre 20 anni e questo per almeno tre ordini di ragioni:
• un sistema giudiziario bloccato;
• una burocrazia asfissiante e in larga parte inefficiente;
• una tassazione da Sceriffo di Nottingham.

Circa le tasse, nel confronto internazionale, in Italia l'aliquota fiscale totale per un'impresa media è pari al 68,3%, contro una media Ocse del 43,1%. E tutti gli economisti sono d’accordo nel ritenere che quando la pressione fiscale supera quota 45% il rischio recessione diventa altissimo…
Il Fisco italiano concentra il proprio prelievo fiscale in particolare su lavoro e impresa: il cuneo fiscale (ossia il differenziale tra quanto paga l’azienda e quanto percepisce il lavoratore), a seconda del reddito e della situazione famigliare del lavoratore, è superiore di 12-14 punti percentuali alla media Ocse.
Inoltre il fisco italiano si distingue per la sua complessità: pagare le imposte richiede mediamente 15 adempimenti per un totale di 269 ore-uomo, contro una media Ocse di 12 adempimenti per 176 ore-uomo.

D’altra parte la burocrazia in Italia è genericamente complessa e costosa, infatti del 52% di PIL che assorbe la Pubblica Amministrazione, solo il 25% è riferito ai servizi e al welfare, mentre il restante 27% è spesa improduttiva, ossia costi della politica e dell’apparato burocratico (solo riportando gli stipendi dei dirigenti di Stato ai livelli tedeschi o spagnoli si recupererebbero 2 punti di PIL).

L’incertezza e la lentezza esasperante del diritto, infine, è forse il maggior responsabile dello scarso appeal a investire in Italia e comunque, secondo dati Confindustria, erode 1,5-2 punti di PIL l’anno.

Ed è tanto vero che tasse, malagiustizia e burocrazia uccido le imprese, che sempre più frequentemente queste lasciano esasperate l’Italia (senza che, per altro, politici, burocrati e sindacati facciano niente per evitarlo).
Risultato finale dello scenario appena sintetizzato?
Secondo un sondaggio sulla condizione economica delle famiglie, effettuato dell'Eurispes e pubblicato sul suo rapporto 2013, emerge che:
• il 60,6% degli italiani, (3 su 5), sono costretti a intaccare i propri risparmi per arrivare alla fine del mese;
• il 62,8% ha grandi difficoltà ad affrontare la quarta (quando non la terza) settimana.
• Fra gli intervistati, il 79,2% non riesce a risparmiare, questo vuol dire che solo 1 su 5 riesce a mettere qualcosa da parte.
• È tra i 45 e i 64 anni" che "si rilevano maggiori difficoltà economiche.
• L'80% dei cittadini è convinto infatti che la situazione economica generale sia peggiorata negli ultimi dodici mesi.
Secondo l’Eurispes "la maggior parte degli italiani (52,8%) è convinta che la situazione economica del Paese subirà un peggioramento nei prossimi 12 mesi, in molti sono sicuri che rimarrà stabile (27,9%) e solo 1 italiano su 10 indica un sicuro miglioramento".
Gli imprenditori "rappresentano la categoria più pessimista e sfiduciata nel futuro economico del nostro Paese che con il 65,5% di indicazioni di un peggioramento staccano di oltre 10 punti percentuali tutte le altre categorie".
Nel 2012 ben 7 italiani su 10 hanno visto peggiorare la situazione economica personale. Mentre "sono davvero pochi coloro che hanno visto la propria situazione migliorare: si tratta appena del 4,8% degli intervistati (lievemente 3,9%, e molto 0,9%)".
Circa un terzo del campione, rileva ancora l'Eurispes, ha chiesto un prestito bancario negli ultimi tre anni (35,7%), un dato in aumento rispetto alla rilevazione dello scorso anno di 9,5 punti percentuali.
E "ben il 62,3% dei prestiti è stato chiesto per pagare debiti accumulati, il 44,4% invece per saldare altri prestiti precedentemente contratti con altre banche o finanziare ma che evidentemente i contraenti non sono riusciti a saldare".
Oltre 1 italiano su 4 si è rivolto nell'ultimo anno ad un "compro oro" per fronteggiare la crisi, e un'analoga percentuale ha venduto on-line oggetti di valore.
È evidente come il rapporto Eurispes decreta come la perdita del potere d'acquisto sia ormai diventata una realtà per 7 italiani su 10.

A questo quadro si potrebbero anche aggiungere dei dati empirici, non direttamente economici, ma di assoluta rilevanza sociale:
• nel 2012 i furti nei supermercati - che vanno dai salami ai carciofi, dalle arance ai formaggi, dalla legna da ardere per il riscaldamento a polli e tacchini, fino addirittura ai vasi di fiori del cimitero – sono triplicati.
• In forte incremento anche il mancato pagamento del premio assicurativo per la RC Auto.
• Crescono i suicidi di imprenditori e persone in difficoltà economica.
Per quanto la cosa possa sembrare incredibile e riportarci ai tempi di “Ladri di biciclette”, ma occorre osservare che la crisi ha fatto triplicare i piccoli furti nei supermercati per soddisfare i bisogni primari. È quanto emerge dall’analisi fatta dalla Coldiretti nei primi mesi del 2013.
Non solo, le famiglie sono state costrette a ridurre mano a mano i soldi destinati agli acquisti per la tavola, con una riduzione della spesa alimentare di oltre 12 miliardi di euro: in un anno " è raddoppiato il numero di italiani che non possono permettersi di comprare carne o pesce ogni due giorni ".
l’Istat ha rilevato, per le vendite al dettaglio, una diminuzione nel 2012 del 2,1% medio (prodotti alimentari - 0,6% e -2,6% non alimentari), ma con un - 3,9% per le imprese operanti su piccole superfici, ossia le classiche botteghe di quartiere.

Per il mancato pagamento della RCA, riporto uno dei tanti articoli di giornale che trattano il fenomeno. Quello che segue è tratto dal Tirreno del 30/01/13:
“Al problema del mancato pagamento dell’assicurazione degli autoveicoli, riscontrato nei controlli alla viabilità, sta aggiungendosi quello, ancor peggiore, della falsificazione dei tagliandi assicurativi.
Una realtà inquietante rilevata ultimamente dalla polizia municipale durante i quotidiani controlli organizzati sulle principali arterie del territorio urbano.
Lutti familiari, perdita del lavoro, difficoltà economiche di varia natura, sono le scusanti più blande che alla fine impongono l’abbassamento dello sguardo per quei soggetti che vengono sorpresi in flagranza”.

Circa i suicidi di imprenditori e persone in difficoltà, questi sono stati messi sotto sordina dal governo Monti, in quanto deprimevano troppo il clima generale e, fu detto, che facevano “apparire come fenomeno generalizzato dei casi isolati”.
Casi “isolati” che, comunque, si ripetono al ritmo di almeno 2 a settimana…
Poi c’è stato il triplice suicidio di Macerata dell’aprile 2013 in cui due coniugi, il marito esodato e la moglie con la pensione minima, impossibilitati a pagare l’affitto e a far fronte alle altre normali spese quotidiane, si sono impiccati e a distanza di poche ore anche il fratello della donna, pensionato, ha fatto lo stesso all’apprendimento della notizia. Ai loro funerali è andata la presidente della Camera, Laura Boldrini. In questo modo, per la prima volta, la politica invece di nascondere il fenomeno, lo ha evidenziato ancora di più e reso visibile a tutti.
Il Sole 24 Ore del 5 aprile 2013 così lo spiega i suicidi per disperazione: “…. «Quanto avvenuto a Civitanova Marche è il classico caso di suicidio allargato. Da una nostra ricerca legata agli ultimi dissesti economici emerge che in Grecia, Spagna e Italia, rispetto agli anni di economia normale, sono emersi picchi in netta ascesa del numero di suicidi motivati dalla crisi». Lo afferma Vincenzo Mastronardi, docente di Psicopatologia forense all'Università La Sapienza di Roma”.

Non stupisce quindi quanto rileva Banca d’Italia, secondo cui, la tendenza più rilevante evidenziata dall’analisi macroeconomica negli ultimi anni, è il notevole calo del tasso di risparmio delle famiglie italiane.
In passato elevato nel confronto internazionale, ma a partire dal 2009, la propensione al risparmio delle famiglie è divenuta inferiore a quella media dell’area dell’euro.
In sostanza, per la prima volta dal dopoguerra, le famiglie italiane per far fronte ai bisogni quotidiani e pagare i propri debiti hanno dovuto intaccare i propri risparmi.

Considerato che è in questo scenario che hanno dovuto agire le imprese a tutela del credito, sorge legittima la domanda: come se la sono cavata?
Nell’immaginario collettivo, aziende anticicliche (ma per altro anche cicliche) come queste, in una situazione di crisi economica, ci “sguazzano” piene di lavoro.
Ma è proprio così?

Il Centro Studi di Credit Village ha analizzato centinaia di bilanci e migliaia di visure camerali per cercare di dare una risposta a questa e altre domande sul settore. Nel tentativo, che a me sembra pienamente riuscito, di fare luce su quest’industria e spiegarla all’esterno. Il tutto è pubblicato nella seconda edizione del WHO’S WHO del recupero crediti in Italia.
D’altra parte anche Unirec, l’Associazione Nazionale delle Imprese a Tutela del Credito, con la sua indagine annuale sui numeri (dalle pratiche lavorate a quelle recuperate, ecc.), prodotti dai propri iscritti, ha fortemente contribuito a spiegare le dinamiche e le tendenze del settore.
Rimando pertanto alla lettura del libro e di questi studi, presentati il prossimo 24 maggio a Roma, per avere le risposte approfondite e un quadro completo della situazione.

Tuttavia, in questa sede, vorrei comunque osservare che il presunto momento positivo per questo business non è affermazione così piana ed uniforme come, all’apparenza, potrebbe sembrare.
Il settore è complessivamente cresciuto, ma con due distinguo estremamente importanti:
• mancata uniformità nella crescita, con l’evidenza di forti sacche di decrescita;
• all’incremento dei fatturati, non è seguito un pari aumento degli utili, che invece sono diminuiti.

Dalla quale emerge con chiarezza che le aziende con fatturati tra i 500 k e il milione di euro e quelle tra i 2 e i 5 milioni di euro di fatturato, hanno visto nel quasi il 60% dei casi il fatturato decrescere o rimanere stabile.
Chi è cresciuto in maniera maggiore sono le aziende medio piccole, con fatturati tra il milione e i due milioni e le aziende più grandi con fatturati oltre i 10 milioni di euro.

Questo dato, insieme al decremento degli utili (che emerge con chiarezza dalla lettura del volume al quale rinvio) credo che debba indurre ad alcune riflessioni:
• il lavoro non è aumentato per tutti i service. Probabilmente chi era specializzato nelle fasce alte nel finanziario e leasing, ha sicuramente subito un vistoso decremento di posizioni affidate. E questo per il semplice motivo che i finanziamenti sono crollati e svariate committenti non erogano più o hanno addirittura chiuso, e quindi le nuove pratiche non si sono più alimentate.
• La riconversione dalle fasce alte a quelle più basse, o addirittura dalla pre-DT alla post-DT, non è stata possibile per quei service che hanno visto decrescere il proprio fatturato. Quando mentalità, struttura e uomini sono orientati a gestire enormi masse di pratiche in una fase molto anticipata dell’incaglio, ancora prima che diventi insolvenza, non è affatto facile la loro riconversione su partiche più dure e complesse nella loro lavorazione. Che esigono una preparazione culturale e un approccio col debitore completamente diversi che nella fase antecedente.
• Il gran volume di pratiche al recupero proviene dalle utenze ha portato un pari incremento dei costi fissi, ma non sempre anche ricavi in proporzione. Infatti, se in questo settore il numero di pratiche è molto alto (qui non ci sono banche date cattivi pagatori e non è quasi mai possibile negare l’allaccio a un utente, per cui i nuovi ingressi in sofferenza sono in costante aumento), ma il valore a pratica mediamente modesto. Se si aggiunge che la scelta del service avviene spesso per gare con l’unico criterio del ribasso e non della qualità, ne deriva che masse enormi di lavoro producano ricavi modesti ovvero, in molti casi, delle perdite secche.
• In generale, le difficoltà di recupero sono aumentate in maniera esponenziale. A fronte di richieste di performance da parte delle committenti costanti o addirittura maggiori, i service si ritrovano ad operare su un tessuto sociale sempre più deteriorato, in molti casi fino alla disperazione...
Su quest’ultimo punto varrebbe probabilmente la pena che tutti - associazione dei committenti, dei service di recupero e consumatori - soffermassero la propria attenzione e iniziassero a tenere monitorato un fenomeno che, al momento, non appare ancora neppure percepito.

In ogni caso, pur nelle contraddizioni e nelle difficoltà che abbiamo descritto, credo che si possa affermare che l’industria della tutela del credito, in questi anni di crisi, si è saputa complessivamente evolvere e adeguare ai nuovi scenari.
Ha costituito e, probabilmente costituirà anche in futuro, una solida barriera alla deriva debitoria, fornendo un servizio insostituibile ai creditori, ai quali garantisce il cash flow indispensabile al loro sviluppo se non addirittura, in molti casi, alla loro stessa sopravvivenza. Ma al contempo ha saputo fornire un servizio socialmente prezioso, consentendo ai debitori di giungere alla soluzione delle loro pendenze in maniera adeguata, normalmente non traumatica, secondo le loro reali possibilità. Costituendo in tal modo quell’”ammortizzatore sociale” che non hanno saputo invece essere realtà diverse, riscossione coattiva in testa.
Segno evidente che il sistema, anche se in Italia una cosa del genere appare incredibile, nel suo complesso funziona. Merito questo degli operatori seri che operano in maniera etica in un mercato difficile. Della loro associazione di categoria che ha saputo autoregolamentarsi e rapportarsi adeguatamente con il regolatore istituzionale. E dello stesso Ministero degli Interni che ben presidia il funzionamento del tutto.
Sarebbe importante che associazione consumatori e politici, prima di partire lancia in resta con attacchi al sistema e/o proposte di riforma del settore, tenessero ben presente questi due pilastri: valore sociale di tale lavoro e sua efficienza attuale.

A questo punto non mi resta altro che augurarvi una buona consultazione del Blog...



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