VARIE
Articolo

Identità delle donne migranti

17/10/11

Per sfuggire a una guerra, a una carestia, a una dittatura, per cercare un futuro diverso, per migliorare la propria condizione, per cercare fortuna, per spirito di avventura: si emigra per questi e per molti altri motivi. (Aime 2004). “Sotto la coperta sentivo il cuore battere per i tanti pensieri che avevo, quello che avevo lasciato e quello che avrei trovato”. (Miscila Ruth Macri Caro – Morini, 2000).

“ka maaya ka ca a yere kono"
(Le persone di una persona sono numerose in ogni persona)
Amadou Hampate Ba

di Antonio Bellicoso

Per sfuggire a una guerra, a una carestia, a una dittatura, per cercare un futuro diverso, per migliorare la propria condizione, per cercare fortuna, per spirito di avventura: si emigra per questi e per molti altri motivi. (Aime 2004). “Sotto la coperta sentivo il cuore battere per i tanti pensieri che avevo, quello che avevo lasciato e quello che avrei trovato”. (Miscila Ruth Macri Caro – Morini, 2000). La peruviana Miscila stava cercando di raggiungere l’Italia passando per la frontiera austriaca, sdraiata sotto di una coperta sui sedili posteriori dell’auto del “passatore” (il trafficante di clandestini) sopra la quale era seduta la figlia piccola dell’uomo che ignara, giocava con i giocattoli disseminati sopra la coperta, quella coperta che nascondeva agli occhi degli addetti alla frontiera, il corpo di Miscila. La donna peruviana al suo Paese era funzionaria di banca, ma per gravi motivi economici intervenuti in Perù, sarebbe stata licenziata da lì a breve. Molte come Lei lasciano il Perù, le Filippine, la Nigeria, il Pakistan, la Tunisia, e altri paesi per andare alla ricerca di un qualcosa che consenta loro e ai propri cari di “sopravvivere”. I primi significativi flussi di migrazione di stampo femminile, stando ai racconti della Ongaro, risalgono ai tempi delle Zone di libero scambio dove venivano ubicati gli insediamenti industriali ad opera di imprenditori stranieri in terre ai tempi non industrializzate. Le zone erano vigilate da miliziani dei paesi ospitanti al servizio dello straniero imprenditore, tra l’altro richiamato dai locali faccendieri a suon di slogan inneggianti alla donna locale come docile e sottomessa. Queste trasformazioni avevano reso invivibili, corrotti e sovrapopolati quei paesi al punto di spingere flussi di persone ad abbandonare i luoghi per dirigersi verso paesi dalle migliori prospettive di vita. In tali flussi migratori, il numero delle donne che erano coinvolte nello spostamento ammontava al 50 per cento del totale. Ainom Maricos ci dice che le donne erano altrettanto coinvolte e lo sono tutt’ora, laddove debbono spostarsi da un confine all’altro per salvare la vita ai propri figli e a loro stesse, a causa del numero sempre crescente di conflitti bellici nei quali sono coinvolti i loro mariti, padri dei loro figli. Le donne – prosegue – sono coinvolte in prima persona e sempre più o meno nella misura del 50 per cento nei primi flussi migratori verso l’Italia da parte delle filippine, somale, eritree, le quali sin da subito entrarono al servizio delle famiglie benestanti italiane per svolgere il lavoro domestico come “fisse”, ossia vivendo fisicamente in quegli appartamenti nell’ambito dei quali erano in servizio 24 ore su 24, villeggiature comprese. Nel 2002 in Italia, le donne “soggiornanti” corrispondevano al 2% per cento della popolazione totale italiana e al 50% della popolazione migrante totale, qualcosa come un milione e trecentomila donne ca., per non parlare delle “clandestine” delle quali ovviamente non abbiamo dati, una sorta di “sommerso” che esiste, come si usa dire del lavoro nero. Cosa significa per la donna nello specifico e per l’individuo in generale, rivestire i panni del “migrante” nel migliore dei casi e dello “straniero” nel peggiore in terra di approdo? Ci serviremo di alcuni contributi di luminari e studiosi del settore per provare a tracciare un quadro del quale poi ci serviremo per analizzare alcuni aspetti centrali della condizione femminile nell’ambito di questa cornice, oggetto d’interesse del presente lavoro.Da un punto di vista del paese d’origine, il migrante viene visto come un traditore e questi per ricucire la ferita prodotta dalla rottura provocata dalla partenza deve dimostrare al paese dal quale è partito che la sua decisione di emigrare non è un tradimento e che il periodo di permanenza presso il paese di destinazione sarà temporaneo e non definitivo, ma intanto, partendo, diventa assente in quel paese, il suo paese d’origine! Giungendo nel paese di destinazione, il migrante si scontra con il pensiero di Stato che lo vede sovversivo in termini di potenziale nemico e destabilizzatore dell’ordine sociale dato e precostituito che lo estromette dalla vita politica, rendendolo per la seconda volta “assente”. La questione è come continuare a essere presenti laddove si è assenti e come abituarsi a essere presenti solo parzialmente e quindi parzialmente assenti dove in realtà si è presenti fisicamente. Il migrante per uscire da questa situazione paradossale di “doppia assenza” (Sayad, 2002) e di doppia esclusione, può ricorrere a due strategie: l’assimiliazione e il rifiuto. Nel primo caso, forzerà l’integrazione al punto di cancellare completamente le origini e nel secondo caso esaspererà l’appartenenza d’origine. “….la ricerca dell’identità, come sradicamento…, essere diversi e in quanto tali unici, non può che dividere e separare… (Remotti a tal proposito dice che ogni tentativo di creare un’identità richiede una duplice azione: da un lato include, dall’altro esclude). Il paradosso è che per poter fornire un modesto livello di sicurezza, l’identità deve “tradire” la propria origine e negare di essere un surrogato”. (Bauman). Sayad definisce l’emigrazione un “fatto sociale totale” perché subentra un processo di variazione dell’identità che investe non soltanto le dimensioni dell’individuo, ma anche quelle del paese d’origine e del paese di destinazione. Da qui si sviluppano le origini del processo di pensiero che lo portano ad evidenziare il paradosso identitario di cui sopra. Concetto quest’ultimo ripreso anche da Kahloula che sostiene che l’identità del migrante non è essere (nel suo caso) un po’ algerino e un po’ francese, ma essere l’uno e l’altro! Kahloula enfatizza ancora di più la posizione del migrante in preda al paradosso identitario quando dice che questi da un lato, è costretto ad integrarsi con il paese che gli è ostile e contestualmente mira a fare progetti irrealizzabili di ritorno allorquando deve rivedere la posizione inizialmente assunta, e da qui nascono le tendenze di esasperare il ritorno e l’importanza delle proprie origini. Una sorta di messa in essere delle due strategie indicate da Sayad, viste sopra. Kahloula aggiunge che se il migrante non esce da questa situazione paradossale, rischia grossi problemi a livello psicologico che vanno ad aggiungersi ai “normali” problemi di sopravvivenza quotidiana in terra straniera del migrante. Il profilo del migrante e della sua identità, appena sintetizzati per mezzo dei contributi di cui sopra, direi che calza molto bene la condizione della donna migrante, la quale, però è doppiamente svantaggiata e per non pochi motivi. Si tenga presente, innanzitutto, calandoci nella realtà quotidiana della donna migrante nel paese di destinazione, che così come per molte donne che giungono nei paesi meta della loro emigrazione è obbligatorio un periodo di clandestinità, una volta ottenuto il permesso di soggiorno, questi potrebbe non essere rinnovato, qualora venissero a decadere i requisiti per riottenerlo, per esempio il contratto di lavoro e quindi il rischio è di tornare clandestine e di conseguenza, non più “censibili”, in una sorta di condizione perennemente precaria. Basti pensare a quanto un donna possa essere ricattata dal suo datore di lavoro che è pienamente consapevole che da lui dipende il suo rinnovo e alle strategie che la stessa deve mettere in atto per non ostacolare tale possibilità; strategia che spesso si paga con la propria sofferenza nascosta, ma cerchiamo di entrare ora ancora più addentro alla condizione femminile della migrante servendoci di alcuni altri contributi, tra i quali quelli della giornalista Morini e quelli di Ainom Maricos Quest’ultima ci dice che se da un lato per la donna migrante decidere di emigrare diventa una rivincita nei confronti del paese d’origine e le restituisce un nuovo status di donna fondamentalmente “potenzialmente libera” l’impatto con una legislazione e una cultura del paese ospitante funge da cortocircuito, nel senso che la donna si rende presto conto che il paese ospitante così tanto ospitale non lo è e a quel punto deve scegliere se tornare in un paese dove spesso è vittima di scelte e decisioni di altri della sua vita oppure se scegliere il meno peggio e subire umiliazioni e stati di assenza e doppia assenza, precarietà, instabilità e quant’altro, spesso in silenzio. Forse anche questa condiziona sa di paradossale! Da qui a realizzare l’infingardo e subdolo ulteriore inganno, la strada è breve. Quando una migrante decide di lasciare il paese d’origine in genere ipotizza di fermarsi nel paese di destinazione poco tempo per tornare quanto prima al paese d’origine, per poter ritrovare quei contesti a lei familiari e ricostruirsi una vita con i guadagni maturati nel paese di destinazione, ma la tragica realtà spesso, per non dire quasi sempre frequente è realizzare che il paese d’origine non è più quello che ci si attendeva di ritrovare, ma che anzi, per certi versi le diventa anche ostile, oltre che cambiato in quei contesti lasciati e ritenuti paradossalmente rassicuranti. Di fronte a tali consapevolezze, la donna deve cambiare i programmi e mettersi a fare tutto quanto ha atteso di fare perché l’avrebbe voluto fare dopo il ritorno al paese d’origine, peccato che per molte di loro quel voler fare non trova più il momento temporale favorevole, cioè a dire, potrebbe verificarsi la situazione in cui per fare ciò che si è ritardato di fare “è troppo tardi”. Questa condizione rappresenta per la donna migrante un terribile inganno. Inganno che diventa doppio laddove nel mentre decide di ritardare il ritorno ai tempi pianificato come nel breve periodo, si rende sempre più conto che sta vivendo in un paese ostile che non le concede diritti se non quello di essere invisibile, ma a costo di non perdere l’equilibrio psichico per piombare nella depressione deve accettare o l’una o l’altra condizione, non ha alternative. La giornalista Morini scrive un testo dalle dimensioni ridotte che ci offre una montagna di storie, così profonde e così “toccanti” da farci a volte accapponare la pelle, perché queste donne non sono giovani donzelle alla ricerca di avventure, ma donne non più giovanissime la cui dipartita ha significato per esse separarsi dal proprio figlio e dal proprio marito alla ricerca di un lavoro più facilmente accessibile dal sesso femminile al solo scopo di inviare la rimessa ai propri cari e tornare quanto prima nel proprio paese d’origine con il gruzzoletto guadagnato nel paese di destinazione, ma ….quanti sogni, presto il sogno diventerà un incubo e la giornalista Morini non è certo avara di esempi, in tal senso, ma prima i conoscere la Morini, non posso non sottolineare la fondamentale importanza di alcuni concetti gravitanti intorno alla identità, perché centrali nei processi di comprensione dei problemi inerenti la costruzione dell’identità. Ci si comincia a porre il problema dell’identità in maniera costante e “seria” per non dire “ossessiva” con l’esplodere del fenomeno mondiale conosciuto con il nome di “globalizzazione”. Questo fenomeno si traduce nella mobilitazione di flussi di ogni tipo, da quelli mediatici a quelli delle persone che fisicamente si spostano da un continente all’altro. Limitandomi a cogliere qua e là alcuni flash che ritengo illuminanti al fine di cogliere per davvero cosa è l’identità farò riferimento a tre situazioni. La prima è di Bauman che sostiene l’identità sia un processo in continua costruzione e ricostruzione, definizione e ridefinizione. Davvero entusiasmante è il paragone con il puzzle. Una identità che si costruisce senza avere davanti la fotografia dell’immagine compiuta che solo il puzzle può avere e non certo il processo di costruzione dell’identità. (Bauman, 2003). La seconda è di Augè. Questi introduce il concetto di “surmodernità”, una sorta di accelerazione della storia in cui la rapidità ha annullato le distanze e pertanto il tempo prevale sullo spazio”. Augè non contento della sua genialità si lascia andare con un paragone di una chiarezza disarmante: “…non come ai tempi di Napoleone, dove le notizie si diffondevano alla velocità del cavallo”. (Aime, 2004) Oggi i media alla velocità della luce portano immagini dell’Italia, dell’America, ecc. quale paese delle meraviglie in tutte le parti del mondo, attraverso la parabola, e i modelli nostrani a paragone con le condizioni dei paesi dai quali gli emigranti sono attratti sono “fumo negli occhi”, ma per loro, la salvezza, il sogno da inseguire. Il terzo passo che aiuta a identificare l’immagine dell’identità in continua trasformazione deriva dall’istantanea che un fotografo cerca di fare all’interno di una classe di bambini in continuo movimento, ivi incluso l’eventuale tremore del fotografo stesso. L’istantanea che ne risulterà ci darà l’idea molto precisa di che cosa sia l’identità, una immagine sfocata, mossa e poco nitida! ( Aime, 2004). Torniamo alle nostre donne migranti. Sarebbe meglio dire, continuiamo con esse, perché nella comunità delle filippine che cercano di aiutarsi l’una con l’altra o nella solitaria trans che deve trascorrere 11 anni della sua vita in cella per l’omicidio di un suo aguzzino (che in realtà era giunto da lei per ucciderla e lei per legittima difesa uccise lui con lo stesso coltello che riuscì a strappare dalle sue mani) si sviluppano forme di creatività e di messa in atto di processi di trasformazione che gradualmente danno forma alla propria identità (dal film “io sono invisibile”). La donna migrante alla pari dell’uomo migrante ha bisogno di costruirsi una sua identità anche e soprattutto nei momenti più difficili, perché i paradossi identitari di Sayad costituiscono una minaccia seria all’integrità psico-fisica (accennata da Kahloula). Tornando ai contributi della giornalista Morini, in merito alle donne migranti in Italia, apprendiamo che il cliché della donna migrante è quello della “povera disgraziata” che se non fa la prostituta, fa la colf. Nella stragrande maggioranza dei casi, le donne migranti in Italia sono domestiche “fisse”, per il semplice fatto che essendo nella posizione di “clandestine” diventa difficile trovare un alloggio e allora decidono, sia pur accontentandosi di paghe ridotte e a nero di andare a vivere presso i datori di lavoro per poter superare il problema del tetto sulla testa. Si torna praticamente indietro fino ai processi di urbanizzazione in Italia dove moltissime giovani fanciulle facevano le serve presso le case dei “signori”, non erano migranti di altri continenti, ma la condizione non può non farci tornare indietro con la memoria a simile contesto, dove il numero delle giovani donne occuparte a fare le serve sulla totalità della popolazione attiva femminile non era affatto trascurabile. Di fatto, sia per le clandestine che per le titolari di permesso di soggiorno (titolo che dà diritto non ad una definitiva condizione di cittadina, ma di perenne precaria visto che ogni 2 anni il documento abbisogna di essere rinnovato) dobbiamo parlare di una sorta di doppia invisibilità sociale (soprattutto in riferimento alle domestiche fisse) poiché da un lato, lo stare al servizio 24 ore su 24, villeggiature comprese, significa per una donna essere di fatto invisibile agli occhi della società e dall’altro significa esserlo in quanto non detentrice di diritti in senso lato. Da una ricerca denominata “progetto IWHA” (Immigrant Health Access) finanziato dalla commissione europea, nell’ambito del programma contro l’esclusione sociale su promozione del comune di Forlì sulle donne migranti, risulta che in un contesto, quale quello dei paesi occidentali, che vede processi di ristrutturazione economica globale e declino demografico come sfondo ad una crisi crescente di welfare, si assiste ad una nuova gerarchizzazione della differenziazione socio-economica, dove le donne migranti si trovano ad occupare gli spazi e i ruoli più marginali ed “ invisibili” come manodopera sottopagata e flessibile nei lavori di cura e riproduzione. Questo ambito diventa sempre più un dominio delle donne migranti, così come dice la giornalista Morini, sempre più spesso clandestine e precarie, le quali non solo devono sopportare il peso della separazione sempre più frequente dai propri figli lasciati ai propri mariti, non solo devono combattere contro il sentimento di “traditrici” affibiatole dal paese d’origine, non solo devono patire le condizioni di non tutela, di non diritti, di non esistenza, ma allo stato più pratico, devono (spesso costrette) lavorare più di 12 ore al giorno presso la casa ove prestano il proprio servizio perché la “signora” italiana emancipata benestante non ha tempo di accudire i figli, altrimenti come potrebbe curare la propria bellezza passando da un parrucchiere all’altro e i propri rapporti sociali, trascorrendo molte ore della giornata al telefono, come si evidenzia dai racconti riportati dalla Giornalista Morini. Il dramma è che la donna italiana parzialmente emancipata, colei la quale cioè per raggiungere l’emancipazione ha bisogno di una domestica che le consenta di conservare il suo posto di lavoro all’esterno della famiglia, anch’essa fa parte della domanda di mercato delle domestiche straniere, perché non sono tutelate, perché sono pagate poco, ecc. Se Sayad parla di doppia assenza, l’attualità sul profilo della donna migrante ci dice che la stessa, soprattutto se clandestina, è “invisibile”, doppia invisibilità? I paradossi identitari della donna migrante però non si esauriscono con il concetto di doppia assenza e in parte nascono dalle situazioni sopra accennate. Si pensi per esempio al paradosso nel quale si trova la donna “badante”, figura professionale comparsa grazie alla legge Bossi Fini del 2002. Il mestiere della badante non è semplicemente rivolto a “badare” un anziano in difficoltà, ma a prendersi cura di lui. Il lavoro richiede relazionalità, pazienza, saperci fare e sempre più spesso si sente dire che le donne straniere con gli anziani ci sanno proprio fare. Alla badante viene delegata in toto la cura del proprio caro e viene data piena fiducia perché riconosciuta come affidabile. Come dice la Prof.ssa Giacomini, anche i marocchini sarebbero disposti a fare i badanti se in cambio si concedesse loro il permesso di soggiorno per questo motivo. Fare la badante per una straniera è una necessità non una predisposizione professionale particolare. La situazione paradossale che queste donne migranti vivono è proprio quella di essere da un lato riconosciute come invisibili, alla cui condizione di invisibilità e precarietà perenne contribuisce non poco il Legislatore italiano, nello specifico, e dall’altro ad aver bisogno di loro perché ritenute indispensabili, super competenti. Un’altra situazione paradossale che investe la donna migrante è che da donna deve “servire” un’altra donna per salvaguardare quest’ultima affinché conservi quella emancipazione che anche la prima vorrebbe, ma che non le è possibile avere pena la perdita della stessa da parte della seconda e in questo caso è la seconda che “paga”, quindi a lei la precedenza. Ma non è un problema di donne, il problema vero è che la donna è vittima 2 volte, la prima perché deve lavorare all’esterno della famiglia e non potrebbe farlo se dovesse accudire a tempo pieno la casa e i propri cari e la seconda perché non riesce a spogliarsi dal dovere di occuparsi lei della cura della casa, dei figli ecc. La colpa di ciò è dell’uomo e delle istituzioni e a farne le spese nella fattispecie è guardacaso proprio la badante che viene ingannata alla pari dello Stato Nazione che con la finzione rendeva suddito il nato al quale in cambio offriva la nazionalità. Oggi alla donna badante si offre uno stipendio misero e una identità usa e getta di donna indispensabile e super competente ma contestualmente la si lascia nella sua precarietà che diventa disperazione quando non si ha più bisogno di lei. Paradossale è anche la situazione della donna straniera ingegnere che se vuole portare a casa i quattrini (quale casa, mi verrebbe da chiedermi) deve imparare a rifare i letti, altrimenti non può fare la badante. Il dramma è che queste parole sono state pronunciate da un politico nel film “le badanti”.La ricerca di Forlì, di cui accennavo sopra, ha evidenziato come anche dopo anni di residenza in un territorio per le donne migranti le condizioni socio-economiche non migliorano. Ciò mi fa venire in mente il regime liberale di Esping-Andersen che ci dice che nei paesi ove questo sistema di welfare prevale (paesi anglosassoni e Usa principalmente) la caratteristica predominante è un sistema di dualismo di classe dove i poveri lavorano per i ricchi (workingpoor) senza che i primi arrivino mai a migliorare le proprie condizioni economiche, ma l’Italia non era un paese più conseravatore, dove per tale termine intendavamo grazie a Esping-Andersen, un sistema tendente a conservare (più che a creare) le disuguaglianze in essere? Allora forse, in Italia si va verso il sistema liberale!
Le donne povere, quelle migranti, in Italia oggi, lavorano per le donne più ricche, ma la realtà ci dice che molte di esse in realtà non siano così “povere” in senso lato, forse lo diventano in senso lato in Italia…vediamo perché. Molte di esse, come ci racconta la giornalista Morini, che giungono in Italia, servendosi dei “passatori”, eccetto quelle che disseminano le propria ossa nel mare adriatico, all’origine non risultano essere proprio povere in senso lato, ma anzi trattasi spesso di donne che hanno una posizione, che conoscono 3 lingue, che possiedono titoli di studio, ma che ahimè una volta giunte a destinazione, per poter lavorare devono spogliarsi dei loro abiti per indossare il “pigiama” dell’assente, dell’invisibile, del non essere, quell’indumento che toglie l’identità ai malati quando vengono ricoverati nei reparti dell’ospedale, anche se oggi in ospedale questa “spogliazione” produce effetti minori rispetto al passato. Questa emigrata che lavorava, ma che avrebbe perso il lavoro, che possiede titoli ma che per condizioni varie non poteva spenderli adeguatamente, che conosce tre lingue ma che non può utilizzare per non umiliare i suoi datori di lavoro che vogliono che lei parli italiano, perché lo parla male e loro parlano male l’inglese (Morini, 2000), che possiede i titoli di studio che in Italia non valgono nulla, ecc. ecc. arriva a valere meno del piccolo delinquente disoccupato cronico nostrano Doc; quest’ultimo è tutelato dal welfare, lei no, perché è straniera in terra straniera! Non tutte le straniere però sono uguali agli occhi delle signore italiane, ma il paradosso è che ciò finisce per influenzare le stesse straniere che per spirito di sopravvivenza giungono a crearsi delle false identità per poter ritenere una loro “collega” straniera diversa da loro, magari perché di colore nero e loro sono bianche, perché la padrona della “serva bianca” ha appena lei riferito che la precedente era una scimmia nera e non le andava a genio, allora la bianca per sentirsi più ben voluta, più importante, si convince di essere meglio della collega nera. (Morini, 2000). Questo ci racconta la Morini!
Se da un lato, la migrante straniera non vuole essere riconosciuta dal paese che la riceve e la burocrazia dà una mano allo stesso, pare infatti che 3 migranti su 4 riescano ad ottenere il permesso di soggiorno non prima di 5 anni di permanenza consecutivo nel ruolo di clandestini (Morini, 2000), dall’altro lato, l’amico Sayad ci ricorda che il migrante “è un curioso ibrido privo di posto, intrappolato in quel settore ibrido dello spazio sociale in posizione intermedia tra essere sociale e non essere”. La migrante non viene riconosciuta titolare di diritti, ma non solo…..la donna ucraina che decide di partire per l’Italia alla ricerca di un lavoro che dia da mangiare al proprio figlio di 2 anni e mezzo lasciato al marito in quanto clandestina non ha dove dormire e trova difficoltà a farsi assumere da chiunque e corre molti rischi per la città in quanto donna sola e spaesata in terra straniera, ma ciononostante suo marito, quell’uomo che aveva con lei concordato partisse per cercare un lavoro forse più facile di quanto non sarebbe stato per lui, ora non le chiede nemmeno dove dorme, cosa mangia, che lavoro fa, ma vuole solo la “rimessa” rivendicando il fatto che dalla mattina alla sera si occupa della casa e del figlio (dal film “io sono invisibile. L’ultima parte del presente lavoro vorrei ora riservarlo a Remotti laddove egli focalizza l’attenzione sulla battaglia “identità-alterità” in quanto trovo centrale l’argomento, pensando alle donne migranti. Remotti sostiene che vi sia tensione tra identità e alterità. L’identità si costruisce a scapito dell’alterità ed è interesse dell’identità schiacciare, far scomparire all’orizzonte l’alterità. L’identità respinge, ma l’alterità riaffiora. L’alterità viene spesso concettualmente emarginata, ma essa riemerge in modo prepotente. Da un punto di vista ell’identità si fa di tutto per negare l’alterità. Il non vedere, il non voler riconoscere gli altri, ci fa sentire dalla parte dei giusti, di quelli che possono giudicare, il diverso. Basti pensare ad alcuni passaggi dei racconti raccolti dalla giornalista Morini per renderci conto di come le datrici di lavoro delle colf migranti tendano a tenere le distanze dalla loro storia, dalle loro vicissitudini, dalla loro vita, riducendole a volte alla “nera” da esibire in salotto o col grembiulino quando si hanno amici a cena, per non dire che spesso le cene con gli amici vengono organizzate appositamente per esibire la propria cameriera. Una domestica che di notte piange perché allucinata dalla condizione in cui si trova, viene scorta dalla propria “padrona” e licenziata all’istante senza che venga riconosciuto alla “serva” il diritto di piangere, il diritto di stare male. (Morini, 2000) Il diritto di esistere!



Bibliografia
- Watzlawick P. e altri, La pragmatica della comunicazione umana, Edizione Astrolabio, 1971
- Remotti F., Contro l’identità, Laterza, Roma-Bari, 1996
- Khaled Fouad Allam, Il paradosso dell’immigrato, da “La Stampa” del 3 marzo 2000
- Esping-Andersen, I fondamenti sociali delle economie post-industriali. Il Mulino, 2000
- Bauman Z., Voglia di Comunità,
- Morini C. (a cura di), La serva serve, Le nuove forzate del lavoro domestico, Derive Approdi, Milano, 2000
- Bauman Z, Intervista sull’identità, a cura di Vecchi, Laterza, Roma-bari, 2001
- Ongaro S., Le donne e la globalizzazione, Rubettino, Soneria Mannelli, 2001
- Giacomini M., dispensa da Studi emigrazione, n.148 dicembre 2002
- Dubar C. La crisi delle identità: l’interpretazione di un cambiamento” in m@agm@ vol. 1 n. 4 ottobre/dicembre 2003
- Progetto IWHA, comune di Forlì, febbraio 2003
- Appunti delle lezioni del corso PROGEST della Prof.ssa Mariuccia Giacomini, Milano, 2004
- Appunti delle lezioni del corso PROGEST del Prof. Benassi sul tema “modelli di welfare”, Milano, 2004
- Appunti delle lezioni del corso PROGEST della Prof.ssa Facchini sul tema “le serve nella società urbanizzata”, Milano, 2004
- Relazione del Prof. Franco Crespi (Università di Perugia) su Identità, riconoscimento e solidarietà sociale tratto dal testo dal titolo omonimo, Laterza, Bari, 2004)
- Denys Cuche, Il Multiculturalismo in La nozione di cultura nelle scienze socialei, Il mulino
- Relazione in aula durante il corso PROGEST della Prof.ssa Mariuccia Giacomini e di Mourad Kahloula, Milano, 2004
- Kahloula M., La biculturalità frantumata, intervista della prof.ssa Mariuccia Giacomini, in Prospettive Sociali e Sanitarie, anno XXXIV n. 8, 1 maggio 2004
- Kahloula M., Il paradosso identitario nell’esperienza dei migranti, in Prospettive Sociali e Sanitarie, anno XXXIV n. 8, 1 maggio 2004
- Scrinzi F., Professioniste della tradizione, le donne migranti nel mercato del lavoro domestico, in Poliz XVIII, 1 apr 2004 pp. 107-136
- Alemanni C., Le colf: ansie e desideri delle datrici di lavoro, in Polis XVIII, 1 apr 2004 pp. 137-164
- Relazione in aula durante il corso PROGEST della prof.ssa Mariuccia Giacomini e di Ainom Maricos sul tema Donne migranti e paradossi identitari, Milano, 2004
- Aime M., Eccessi di culture, Einaudi, Torino, 2004

Antonio Bellicoso
www.servizisociaionline.it



Licenza di distribuzione:
INFORMAZIONI SULLA PUBBLICAZIONE
S.O.S. Servizi Sociali On Line
Responsabile account:
Antonio Bellicoso (Direttore del Portale)
Contatti e maggiori informazioni
Vedi altre pubblicazioni di questo utente
RSS di questo utente
© Pensi che questo testo violi qualche norma sul copyright, contenga abusi di qualche tipo? Contatta il responsabile o Leggi come procedere