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Narrazione guidata e pensiero magico. Aiutare le persone a superare un lutto importante

23/10/11

Perché i nostri cari che muoiono ci lasciano un compito da portare a termine, da svolgere sino in fondo" "Io credo piuttosto che questa parola "compito" sia inadatta perchè contiene un obbligo, un dovere, da parte di chi sopravvive, di continuare l’opera e la testimonianza del deceduto. Si tratta invece di un dono, è questo il vocabolo esatto, di un vero e proprio dono che ci consegna chi scompare. Sta a noi che restiamo scegliere in libertà e autonomia se e come sfruttare questa opportunità. –

- …perché i nostri cari che muoiono ci lasciano un compito da portare a termine, da svolgere sino in fondo.-

- Io credo piuttosto che questa parola ‘compito’ sia inadatta perché contiene un obbligo, un dovere, da parte di chi sopravvive, di continuare l’opera e la testimonianza del deceduto. Si tratta invece di un dono, è questo il vocabolo esatto, di un vero e proprio dono che ci consegna chi scompare. Sta a noi che restiamo scegliere in libertà e autonomia se e come sfruttare questa opportunità. –

- Ma io non intendevo con il termine ‘compito’ un sorta di costrizione ma un impegno, un impegno da svolgere proprio in nome dell’amore che ho vissuto con chi è morto.-

È questo il dialogo che, più o meno, ho direttamente sentito durante un evento pubblico e che, più di tante spiegazioni, esprime la caratteristica fondamentale della narrazione guidata: il valore e la cura del tutto particolari per il linguaggio verbale durante incontri appositamente preparati con persone in lutto. Si tratta quindi di una modalità di condivisione di un’esperienza, il lutto appunto, che considera la comunicazione orale come assolutamente strategica (certo non l’unica) nei percorsi elaborativi di perdita. È applicabile quindi nei gruppi di auto mutuo aiuto, negli incontri individuali e nei contatti telefonici perché ciò che la caratterizza è la possibilità di dettagliare, declinare e specificare il linguaggio cioè la forma che utilizzo per presentare e condividere i miei vissuti luttuosi.
Lo scopo finale non è quello di ottenere racconti orali linguisticamente forbiti né di aumentare le competenze narrative ma di co-costruire, nel rapporto utente-operatore, la ‘forma buona’ cioè frasi, sostantivi e aggettivi, costruzioni sintattiche in genere che, chi soffre, riconosce come cor-rispondenti alla realtà dei fatti accaduti, del vissuto interiore, delle idee e delle emozioni. È buona questa forma linguistica non perché raffinata o commovente ma allorquando coincide, o almeno somiglia, a ciò che sto vivendo qui ed ora, dopo la perdita di un mio caro: ciò che vive dentro la mia anima e la mia testa ha una cor-rispondenza con parole che lo esprimono, o si avvicinano a questo.
Trovare allora le frasi e i termini per definire il dolore e le molteplici conseguenze esistenziali permette di ‘creare una separazione tra l’io e l’esperienza di perdita (…), un inizio di differenziazione interiore tra quello che mi sta accadendo e la possibilità di affrontarlo’ .

Due parole
La prima: ‘narrazione’. Proprio ad indicare ‘che si tratta né di un nuovo né di un alternativo sistema comunicativo rispetto a quello che, ad esempio, è vissuto dentro il gruppo ama’ . Si resta quindi nell’ambito di ciò che viene chiamato, a seconda degli autori e dei contesti, approccio narrativo, narrazione, condivisioni autobiografiche, narrazione nella cura ecc. Sono primari, in tutti i casi, la centralità dell’esperienza personale, l’assenza di analisi cliniche, di giudizi e di indicazioni comportamentali, la libera espressione del dolore in ogni sua forma, la disponibilità dei soggetti coinvolti a raccontare pienamente e intensamente di se stessi.
La seconda: ‘guidata’. Si guida la narrazione, non il narrato, come esplicitavo nel secondo testo, sempre antecedente a questo , e il riferimento è alla cura della narrazione in quanto linguaggio (prevalentemente) orale che esprime, tradisce e svela il vissuto esistenziale personale, i desideri, le lotte interiori, le paure, i progetti. Nella pratica si tratta di un interesse e un’attenzione del tutto specifici alla forma linguistica che utilizziamo per comunicare e analizzare il contenuto.
Dedicarsi al codice linguistico, esaminare, in un rapporto che vede la costante e attiva presenza di chi è in lutto, il suo modo di esprimersi significa aiutarlo a:
a. definire e dare ordine a ciò che interiormente si evolve (emozioni, paure, desideri…)
b. dettagliare le reazioni alla perdita che si manifestano durante il proseguo delle giornate
c. individuare le dimensioni centrali e satellitari del vissuto di perdita
d. stimolare una costante e crescente capacità autoriflessiva
e. far emergere in maniera realistica e precisa la personalità del defunto, le peculiarità del rapporto instauratosi prima del decesso, le dimensioni e le specificità del suo lascito esistenziale complessivo (quindi a livello emotivo, etico, economico, progettuale, patrimoniale…).
Tutto ciò, e tanto altro di correlabile che si scopre principalmente grazie all’esperienza diretta di narrazione guidata, ha la rilevante prerogativa di permettere una duratura analisi di quello che sta accadendo dentro e fuori di me, la rivelazione sempre più consapevole e ricca delle mie forze interiori, la capacità di avviare azioni concrete in maniera lucida e autentica. E questi aspetti sono proprio, a nostro avviso, assai decisivi per vivere il travaglio del lutto fino alla ri-nascita.

Dettagli
E cioè: come si concretizza esattamente la narrazione guidata? E’ ovvio che diventa necessario farla, trovarsi vis à vis tramite esercitazioni, prove, racconti, simulazioni e quant’altro. Indispensabile poi è la capacità di mettersi in gioco in tempo reale, certi comunque che mai ci si sentirà sufficientemente pronti sino a quando non si incontrerà una situazione vera, senza intermediari o possibilità di ripetere se qualcosa va storto. Però si possono comunque analizzare alcune delle attenzioni specifiche al codice linguistico che, durante gli scambi con chi soffre, bisogna far risaltare avvalendosi di:
a. domande esplicite ed implicite
b riformulazioni di frasi appena dette
c. richieste dirette di chiarimenti
d. espressioni tipo: ‘se non ho capito male volevi dire…’, ‘questa parola che usi è per affermare che…’, ‘mi ha colpito quella frase in cui…’, ‘l’altra volta l’avevi raccontato diversamente…’
e. inserimenti nella mia comunicazione di precisi vocaboli/frasi o parte di esse dell’interlocutore
f. rimando agli altri, ad esempio in caso di gruppo ama, di un aggettivo, un termine, un’ asserzione particolare, per facilitare le riflessioni di tutti.
Sono solo alcune delle strategie che permettono alla narrazione guidata di concretizzarsi: se ne possono comunque trovare molte altre, non difficili da attuare, e i facilitatori hanno la possibilità di crearne cammin facendo di nuove in base alla sensibilità individuale, all’esperienza personale e alle abilità che altri più esperti posseggono.
Medesima riflessione vale per i contenuti della narrazione guidata: quelli che seguono sono i più evidenti ma sempre, durante i percorsi formativi, l’approfondimento tra tutti i partecipanti permette alla successiva lista di ampliarsi e diventare molto più minuziosa, fornendo così a ciascuno una quantità considerevole di occasioni per porre l’attenzione al linguaggio.

I contenuti
Sviluppo e sequenza di frasi: il racconto ad esempio del momento in cui si è appresa la notizia della morte, avviene con frasi che si collegano tra di loro, formulate in ordine logico, con una progressione che aggiunge di volta in volta dei dati? Le espressioni sono normalmente lunghe o sembrano non finire mai o al contrario sono costituite ognuna di pochissime parole? Vengono aperte parentesi all’interno dei pensieri detti e il soggetto fatica a ritornare all’enunciato iniziale?

Differenti versioni di un medesimo episodio: quali cambiamenti linguistici sono presenti nel racconto quando viene ripetuto più volte (ad esempio in riferimento ai giorni immediatamente successivi al decesso)? Si potrebbero evidenziare:
a. differenze nel tono e nell’inflessione della voce
b. capacità di specificare meglio le sensazioni con espressioni più pertinenti
c. lunghezza e consequenzialità delle affermazioni che si caratterizzano per un maggiore ‘respiro’ e ordine logico.
Sono tutti dati di assoluto valore, certo per capire meglio cosa sta vivendo chi è di fronte a me, ma soprattutto per incentivare una narrazione più fluida e organizzata, indicatrice di un diverso percorso interiore.

Ridondanze e ripetizioni: le reiterazioni sono sottolineature di momenti cruciali, vissuti come assolutamente significativi nella fase precedente o successiva alla scomparsa e per questo meritano particolare considerazione. Memorizzare quindi alcuni termini, immagini e idiomi che ricorrono spesso per condividerli con il soggetto e insieme fare emergere le parti identiche, quelle simili e i mutamenti linguistici, versione dopo versione. In senso negativo possono invece indicare l’impossibilità di distaccarsi dall’evento/emozione/pensiero che viene detto e ridetto: in casi come questi è efficace la richiesta di utilizzare parole diverse (‘come lo diresti in altro modo?’ oppure ‘togliendo questa frase che usi sempre, come lo potresti raccontare?’).

Omissioni: si notano o per evidenti vuoti nel racconto, che mancano quindi dei passaggi logici, di aspetti di un vissuto, o perché ciò che era stato tralasciato sino all’ultima verbalizzazione appare all’improvviso (es.: una caratteristica, spesso scadente, della personalità del defunto). È spesso utile sostituirsi inizialmente all’interlocutore, parlando un po’ come se fossimo al suo posto, per aiutarlo ad avvicinarsi alle parole che rimandano a ciò che, per scelta o solo apparentemente in maniera inconsapevole, ha evitato di comunicare.

Durata/durate: il tempo cronologico che viene impiegato nelle narrazioni è correlabile alla capacità di rievocazione, di gestione delle emozioni che traboccano, di autoanalisi, di discernimento dei vissuti. Lunghi racconti, brevissimi interventi, aumento graduale o diminuzione costante degli interventi sono tutti segnali che possono denotare capacità e risorse più o meno adeguate di introspezione, discernimento, ri-progettazione esistenziale.

Pause, intercalari, silenzi: da intendere come la punteggiatura nella scrittura. Punto, due punti, virgola, puntini di sospensione rafforzano ciò che è espresso o rivelano la difficoltà nel trovare le parole perché le emozioni del momento sono troppo intense, i ricordi poco chiari a se stessi, la verità (cioè la concordanza soggettiva) tra ciò che dico e ciò che vivo non del tutto convincente. Attenzione allora alle espressioni immediatamente successive ad una pausa, perché probabilmente più ponderate e vere di altre; a modi di dire che in alcune parti degli interventi vengono più spesso ribaditi; a pause tra una parola e un’altra, tra un’espressione e quella successiva. Cogliere questi passaggi ci aiuta a comprendere gli aspetti centrali e satellitari di un racconto, a definire dove è meglio insistere per continuare o differire la narrazione.

Ritmo dell’eloquio: la velocità e la cadenza nel raccontare testimoniano l’ansia costante dell’ interlocutore quando i tempi sono concitati, la pena profonda nell’estrema lentezza, la carica energetica nei ritmi sincopati, l’ottimismo e la riapertura alla vita nella costante, fluida e armonica esposizione delle frasi. Ancora più interessante è porre l’attenzione ai mutamenti ritmatici all’interno di un unico eloquio, costituito ad esempio da 6-8 frasi: rallentamenti o velocizzazioni improvvise sono sovente correlati a rievocazioni o proponimenti vissuti come strategici dal diretto interessato.

Precisione degli aggettivi: stimolare la riflessione su quel particolare aggettivo utilizzato per capire se è stato scelto consapevolmente, se ne esiste un altro di più adatto e perché. Esempio: ‘vivo un dolore immenso’. Immenso significa infinito, percepito quindi come impossibile da esaurirsi anche nel futuro o così intenso da aver coinvolto tutti gli aspetti della vita e della persona?

Quantità e variabilità dei sostantivi: prestare attenzione alla maggiore o minore ricchezza di questa parte del vocabolario e, a seconda dei casi, suggerire nuovi termini all’interlocutore perché forse possono rispecchiare meglio ciò che comunica; sottolinearne altri che ricorrono spesso per accertarsi della loro funzione reale; evidenziare le diverse parole usate per riferirsi al medesimo dato. Esempio: fatica, impegno, sforzo, peso, dovere hanno significati diversi. Chi li usa ne è consapevole? E in caso positivo quindi cosa esprime di diverso ogni volta? In caso negativo quale termine gli corrisponde meglio?


Concordanze/difformità dei tempi verbali: sono indicatori di grande interesse per cogliere la collocazione, nello spazio interiore, di ciò che viene narrato. Il passato lontano, l’attuale presente e il futuro prossimo, se vengono espressi con i tempi corretti (tenendo sempre presente che non è una singola e unica discordanza ad avere valore), marcano la collocazione storica del fatto e, opportunamente esplicitati, ne aiutano la consapevolezza. In caso contrario invece, le difformità e gli errori reiterati nell’uso dei verbi, hanno uguale valore nell’indicare come il soggetto posiziona esistenzialmente gli avvenimenti di cui racconta.

Linguaggio delle metafore/immagini: non per i significati e i rimandi che esprimono (ovviamente da approfondire) ma, nel nostro specifico contesto di narrazione guidata, per il tipo di idioma di cui ci si avvale. Può essere differente rispetto a quello solitamente usato, ad esempio più lirico, più disteso, senza quei termini carichi di angoscia e sofferenza di altri momenti del racconto; a volte è come se fosse una pausa di relativa serenità nell’eloquio, e quindi nel vivere, che potrebbe essere via via ampliato ad altri momenti comunicativi. Parole serene favoriscono pensieri sereni, ricordi più luminosi, diminuzione dell’ansia, respiri più lunghi e distesi: all’interno di incontri dove spesso il peso dell’assenza e lo sconforto occupano spazi significativi, momenti differenti non rappresentano solo intervalli di quiete ma generano positività.

Con questa logica è possibile proseguire ancora per molto ma a me interessa qui presentare e far comprendere il meccanismo che caratterizza la narrazione guidata. I ‘dettagli’ verbali non sono allora attenzioni cavillose e sovradimensionate alle parole ma applicazioni pratiche di un processo globale che parte dal linguaggio e arriva al contenuto. Ovvio, totalmente ovvio, che il linguaggio orale costituisca solo una parte della più ampia dimensione comunicativa, ricca di tanti altri elementi extraverbali, meta verbali, paraverbali e via dicendo.
Diventerebbe poi del tutto fastidioso un dialogo in coppia o in gruppo dove, in maniera costante e insistita c’è chi chiede ogni due minuti di cercare un’altra parola, specificare un aggettivo, ripetere il concetto con nuove frasi. Il buon senso, la parsimonia, l’utilizzo graduale di questo approccio, tale cioè da integrarsi con le capacità verbali di partenza del soggetto, sono più che un valore: un dovere.
E infine: perché ‘pensiero magico’, come scritto nel sottotitolo? Il riferimento è ancora una volta all’esperienza personale: da Trento a Reggio Calabria, da Siracusa a Genova, i gruppi di auto mutuo aiuto che ho incontrato in questi anni, le associazioni di settore e molti singoli operatori, professionali e volontari, pensano e vivono la narrazione come intoccabile e indiscutibile, quasi si trattasse di esperienza sacra. Intanto che si dibatte liberamente e senza vincoli su varie questioni come, ad esempio, il gruppo aperto o chiuso, la facilitazione come responsabilità di alcuni o diffusa a tutti i partecipanti, i processi elaborativi e di ricostruzione esistenziale, quando finisce il lutto e tanti altri temi, la narrazione invece non viene mai messa in discussione. È come se possedesse valore intrinseco per il solo fatto di esistere e di essere utilizzata. Così pensando, raccontare appare sempre e comunque una risorsa, parlare fa bene in ogni caso, basta spiegare quello che stai vivendo a qualcuno in ascolto e si dà per scontato che quest’azione conforta. Tutte queste considerazioni, che poi si traducono in modalità organizzative e comunicative del servizio di supporto al lutto, indubbiamente non sono errate ma il fatto che vengano contemplate da un ottica così assolutistica le rende limitanti e molto approssimative. Perché spesso raccontare è solo raccontare e null’altro; la condivisione è di frequente identificata con il mero ascolto ma quest’ultimo da solo non produce cambiamenti; parlare può aumentare la pena e basta.
È necessario perciò superare il diffuso pensiero magico che considera la narrazione come valore assoluto, efficace in ogni caso e in qualunque modi si attui, per aiutarla invece ad esprimere il massimo delle sue incredibili potenzialità.
La narrazione guidata è un tentativo a proposito.

a cura di Nicola Ferrari - Associazione Maria Bianchi
(Psicologo e psicoterapeuta, Consulente del Portale www.servizisocialionline.it)

Antonio Bellicoso
www.servizisocialionline.it



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