Opera meritoria, nella collana "i Cammei" dell'Editrice Tracce
E' appena uscita alla stampa la raccolta poetica di Ninnj Di Stefano Busà
Il sogno e la sua infinitezza di Ninnj Di Stefano Busà prefazione di Walter Mauro, Ed Tracce Pescara
Flavia Buldrini
Del sogno questa silloge poetica ha tutto il fascino malioso e l’aura trasfiguratrice, mentre il respiro d’infinito permea i versi come una fresca corrente cavalca i cieli. È la sacralità di un imperscrutabile mistero che aleggia sul caos informe del proprio destino e gli dà un senso compiuto, come è scritto ad epigrafe del testo: “La Poesia è nel destino. / Sinapsi ascensionale che sublima. / (Come a un cielo l’ala), / dagli abissi del male, spicca il volo / e il mondo viene avvolto / di assoluto.” Si è come in un’atmosfera sospesa, tra la visione onirica e la tediosa consapevolezza del limite, di quei “cocci aguzzi di bottiglia” in cima alla “muraglia”, direbbe Montale, che impediscono di sporgersi e di affacciarsi verso l’espansione di nuovi orizzonti. Tuttavia, per Leopardi la siepe “che da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude” è trampolino di lancio per tuffarsi nell’infinito; così per l’autrice, il senso ineluttabile della finitezza la sospinge nella dimensione alternativa del sogno e della sua infinitezza: “Non che io conosca la geometria dell’aria / il volo del coleottero sul ramo, / dentro la morte dell’estate è il suo flagello, / la linea di demarcazione, la palude stigea / la foglia che marcisce e alimenta la notte / incombente, senza volto e nome. / Una luce, la nostra, che ha il debito dell’usura, /l’orizzonte sempre lontano.” È proprio l’ignoto, infatti, il punto di partenza per l’avventura della conoscenza (“fatti non fummo a viver come bruti”): “Rinascere poi è come tentare / quel poco che non conosciamo, la verità / è sentiero inesplorato, sasso duro a spezzarsi, /eppure è chiaro il giorno, c’è tanta luce intorno.” L’esistere dell’uomo non è che un vagare inquieto, proiettando verso altri lidi, altri cieli, verso un altrove di utopia le proprie aspirazioni frustrate, mentre la morte, “una lingua muta / che sbianca carne e sangue, /fin dove scorre il soffio della linfa, /a sciame cattura il brusio tenace della vita”, fatalmente incombe come una spada di Damocle: “Possediamo una sola geometria di sguardi, / un germogliare labile di cieli, /che incrocia flussi migratori, /ancora col fiato sul becco, /quando la morte li attende al varco sulla rupe, / dove il viaggio si fa memoria d’aria, /sorriso di radici inquieto, /alghe e rocce che portano in mare aperto.” Si soffre di questa astenia di trascendente, così inaccessibile da poterlo anche solamente agognare, mentre ti assedia e ti stringe come una morsa fatale il cerchio delle cose finite, che tarpa le ali e soffoca il respiro: “E non è che io cerchi l’altra metà del cielo, / un ritorno d’erba dell’età primeva, / Il mio sogno ha sassi duri e licheni /sfrangiati dal troppo rinascere /fiore e radice. Ora è seccume di ramo”; “A tratti, ci restituisce l’innocenza, l’amore, / mentre calziamo l’ipotesi del volo, / ma non abbiamo ali che /ci spingano / in mare aperto, lì dove si compie / il miracolo di luce, lo spoglio della vita /che ti respira e ti perde, come il sole d’inverno…”. La vita appare troppo prosaica e angusta per poterci slanciare oltre il suo “volo breve / di una rondine di mare”: “La vita che viene, dici, non è scritta / per darci la facoltà della meraviglia, / la fioritura fuori stagione, l’anelito /dell’aquila alla rupe.” È segnata inevitabilmente dal dolore, che scava trincee, lungo il corso degli anni cinge di spine, ferisce e divora a poco a poco: “Ci pensano gli anni a puntellare / l’agguato delle ali, la liturgia /che imporpora il sonno alle ortiche. / Vi è un dolore talvolta sottile che spacca / le argille, spande i suoi silenzi /nei grumi, come il vento tra i rami. / Vi rovista il cuore nella follia degl’interludi, / ha sandali di rovi, tutta la solitudine / degli oceani, qualche seme tenace di orgoglio /a incarnarsi al libeccio, / a ferire / il disavanzo della carne che deterge il dolore.” Esso è un palpito universale con cui ogni singolo deve combattere dentro di sé: “della rinuncia ad essere stella esiliata / di una solitudine unanime che grida.” “Ma, “perché tutto il dolore / non si sciolga in grida di silenzi, / non sia epicedio di tenebra / la malinconia del tramonto”, insorge quel fuoco sacro dell’anima immortale che rivendica il proprio libero spazio di cielo in cui spiccare il volo, primizia di luce che dalla coppa dell’aurora s’immilla: “Tu, annegata nell’oceano dell’anima, / sei solo creatura d’infinito, /alba che si oppone al turbinio dei giorni, /al turbamento delle minime cose, alle assenze.”
Metafora per eccellenza d’infinito è il mare, con la sua azzurra trasparenza che riflette il cielo, con il suo miraggio di assoluto che culla l’anima che naufraga, senza ormeggi, in questa deriva di eternità: “Questo mi porta il mare: la liturgia /del suo silenzio, la pacatezza dell’umida sera, / il suo cobalto. /Eppure, niente ci accomuna, o tutto: /c’insegna la luce il suo morire, /di una pelle nuova abbiamo nostalgia, / o di un approdo senza agguati che ci stringa / al suo infinito.”
Incantevole è questo inno al cielo, velo del divino silenzio che sovrasta il mondo, respiro d’eterno che soffia come un mantice sopra l’abisso, apice di bellezza e culmine di tutte le attese: “Tu, cielo che conti le stelle, solleva lo sguardo / alle debite lontananze, tu che appari e scompari / dal fragile volto corrugato dei cipressi: / tu, solitudine desolata, incolmabile orizzonte /dei nostri desideri: fosti l’oriente e l’occidente /del mondo, la piuma docile e levigata dei sogni, / tu, terra promessa, zenith delle contratture, / delle offese, delle festevoli voci. / È tempo di monologhi, di trasparenze, / di venti incorrotti e incorruttibili /che schiantano implacabili i fortilizi. / Non può che giungere da te l’inestinguibile /oblìo.”
È l’amore la forza indomita che ti fa correre a braccia aperte incontro alla vita, che ti mette le ali ai piedi e il vento nei tuoi passi: “C’è una sola felicità a farti calzare / i sandali col vento: se incontri l’amore: /come camminare a ritroso nel buio /sbucare dalla solitudine al sole..” Come nel mito platonico della metempsicosi, si ha una reminiscenza di quella condizione edenica perduta, di quell’“eliso che specchia l’amore / nella bellezza avvampante dei corpi”: “Come vela dirupata dall’albero maestro, / lì, si srotola la geometria del cielo, / nelle sue litanie manchevoli la reliquia, / fatta corpo, saccheggio di passione e oblìo.” Infatti, è l’inguaribile nostalgia di quel Paradiso perduto dove “vi schiumò l’oro dei tempi felici”, che muove gli ardenti accenti dei poeti, il perseguire quell’archetipo di bellezza e di armonia che suscita i phantasma poetica, come osservava Leopardi: “Tu rosa candidissima, mio sogno, torna / al brivido primo, alla placenta che nutriva / il molteplice dall’irripetibile vagito, / della prima aurora del mondo.”
È la passione che sembra dominare l’uomo e non la pazienza del ciclo naturale, “la fedeltà delle galassie, / l’acerba sostanza che muove gli alfabeti”: “Abitiamo l’addio, vaghiamo in direzione /del tempo, come fiato che si perde /nella corrente sonora di un flauto. / Non ha note l’arpa delle nostre ebbrezze, / solo passioni carne e sangue, per impaziente / sortita di nascita che nega la sua morte.” L’anima è testimone silenziosa dell’umana vicissitudine, di cui custodisce gelosamente la memoria: “Altro tempo fu il nostro, altri la parola /gemmante e l’amore funambulesco, / l’accesa tenerezza che fiorirono dall’orma / dei pensieri sorvolando / tra le pietre e le risa, spandendo tra capelli / i diluviali silenzi, grazia d’eternità. / Paziente l’anima trascrisse / la fiaba sapiente che l’attraversò.”
Tutta la poesia del legame viscerale materno rivive in questi versi: “l’eterno negli occhi /di tua figlia, / ardenza azzurra, stracolma d’aria e rondini”; “Oggi riallaccio fili d’anni, il tuo riso / di pesca e la minuscola promessa / racchiusa tra le labbra e il sole, / mia nostalgia di carne, stella abbagliante, /sottile grumo di sangue che investì /il mio grembo e fu sostanza nodosa / di quel grido d’amore, indicibile festa.”
In questa dialettica di gioia e dolore, luce e tenebra, infinitezza e finitezza (“È in questo fiorire d’attese, / il germoglio mancante, l’instancabile: /perdersi per ritrovarsi un solo momento”), ci attende, inesorabile, la fine, che inghiotte il tumulto impaziente dei giorni: “Qui finisce il fiume la sua corsa, / perduti in un groviglio di dolore, / ci avviamo al silenzio delle rive, / come un grido dall’esiliato corpo, / sorseggia qualche felicità remota, / i fiati sempreverdi da lontano.” Eppure, nonostante questo ingranaggio spietato di “cieche ruote dell’oriuolo”, per dirla col Foscolo, c’è una forza divina, una dimensione metafisica, che sovrasta e vince ogni contingente contrarietà: “Dove le strade divergono c’è ancora / quella luce che non s’arrende, / quel grido immenso di libertà / che la fatica del divenire sorprende.”
Si traccia come un bilancio della propria vita, teso a trattenere i depositi d’oro dal setaccio degli istanti preziosi (“fosti vento e orma d’infinito, / fiore infuocato della giovinezza”) e a inseguire i rimpianti di tutto ciò che non è stato investito nell’eterno: “I versi che non scrissi, a mezz’aria, / mi urlano dentro. / E manca l’unica parola che dia fiato / ai giorni, quelli che amore / tracimò in cima al tempo…”; “Dal naufragio salvo le parole, / quelle che resistono alla lapidazione, / al gioco delle parti, alle spore di pianto. / Mi parlano. Come un loto bianco / alla luce chiama ancora l’anima al suo stupore.”
I versi di Ninnj Di Stefano Busà sono intessuti di echi letterari impregnati del fascino misterioso di quell’ermetismo che ebbe i suoi illustri esponenti (soprattutto si possono riconoscere le vestigia di Quasimodo, Montale, Luzi), impreziositi di una rigogliosa fioritura immaginifica e sostenuti da una salda impalcatura intellettuale, nell’intensità delle meditazioni. Non si può che restare ammirati della bellezza monumentale degli arazzi iconografici e dei fregiati arabeschi che costellano l’universo demiurgico dell’artista e deliziarsi della suprema armonia che si compone nella perfetta incastonatura e cesellatura delle parole, in una raffinata squisitezza poetica tutta da delibare nella sua incantevole suggestione lirica: “È gravida la notte di tutti i silenzi. / l’anima ne dipana le sue forme”; “Contrabbandieri di un solo viaggio /esasperiamo gli albatri alla riva”; “silenzi, che sciamano, / come fasci di luce nella penombra, / quando assaporano l’attesa che li nutre”; “Ora torno illesa alla mia incandescenza, / alla distanza oscura della notte.”