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Processo lungo, non giustizia ma vendetta. Di Nicolò Morachiello

18/11/09

La legge Pinto (89/01) obbligherebbe lo Stato a risarcire il cittadino vittima di un processo troppo lungo. In realtà è talmente farraginosa che sembra quasi essere stata ideata con lo scopo, tipico della legge italiana, di scoraggiare le vittime di lungaggini processuali a chiedere il giusto risarcimento.


Due filosofie antitetiche emergono dal recente dibattito politico sulla riduzione della durata del processo. Da una parte una visione che potremmo definire "statalista", dall'altra una prettamente liberale.

La prima vede lo Stato, per mezzo degli organi detentori del potere giurisdizionale, investito del Diritto, a tutela della “sicurezza collettiva” (o, come lamentava Benedetto Croce parlando del regno di Napoli retto dai Borboni, della oligarchia dominante), di tenere un cittadino sotto processo o sotto pressione per tutto il tempo ritenuto opportuno.

Il concetto implica che l’errore giudiziario o la persecuzione giudiziaria siano tollerati perché, per la sicurezza della società, si ritiene più opportuno che un presunto innocente venga condannato ingiustamente e che la sua vita venga rovinata, piuttosto che un presunto criminale venga lasciato a piede libero. In questo tipo di Stato è accettabile che un cittadino viva sotto processo per tutta una vita o per un tempo indefinito deciso da chi lo giudica, e non da leggi precise.

La visione più liberale della Giustizia pone invece al centro dell'attenzione il diritto del cittadino a decidere della propria vita, perché non resta per lunghi anni in attesa di condanna o di assoluzione definitiva (in Italia anche a 23 anni per il passaggio in giudicato).

La questione è già stata affrontata nella Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle libertà fondamentali o Cedu, trattato internazionale elaborato dal Consiglio d'Europa, firmato a Roma il 4 novembre 1950 e ratificato da tutti i 47 Stati membri del Consiglio di Europa (giugno 2007). In Italia la Cedu è stata recepita con legge 848 del 1955.

Per lunghi anni i giudici italiani hanno negato l’applicabilità diretta della Convenzione nel nostro ordinamento, costringendo le vittime di eventuali violazioni a far ricorso (dall’agosto 1973) alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con sede a Strasburgo.

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha constatato in numerose cause l’esistenza in Italia di una prassi contraria alla Convenzione.

Con la legge di revisione costituzionale 2/99, il Parlamento italiano ha deciso d’inserire il principio dell’equo processo nella Costituzione. L’articolo 111 della Carta, nella sua nuova formulazione e nelle sue parti pertinenti, recita testualmente "La legge ne assicura la ragionevole durata".

La legge Pinto (89/01) obbligherebbe lo Stato a risarcire il cittadino vittima di un processo troppo lungo. In realtà è talmente farraginosa che sembra quasi essere stata ideata con lo scopo, tipico della legge italiana, di scoraggiare le vittime di lungaggini processuali a chiedere il giusto risarcimento.

Tutto questo è stato sufficiente a garantire effettivamente la giustizia?

Non è un mistero che poco è cambiato. Non è un mistero che l'Italia sia uno dei paesi con il meccanismo processuale più lento.

La riforma della giustizia è sicuramente un tema delicato, ma questa scusa troppo spesso è stata usata per perseguire l'immobilismo riformatorio del sistema Italia.

E al cittadino non resta che sperare che il circolo vizioso della lentezza giurisdizionale venga finalmente spezzato ed un vero processo riformatorio, tanto legislativo quanto, soprattutto, sostanziale venga attuato.



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