Raffinerie, a rischio 40.000 addetti. Pascucci: puntare su economy capacity e riconversione green
Necessarie misure di lungo periodo per fronteggiare la crisi di un settore che rappresenta un asset strategico per le necessità energetiche del nostro Paese.
“Nell’industria della raffinazione italiana sono a rischio nei prossimi anni 40000 posti di lavoro tra diretto e indotto. Questa crisi può essere scongiurata soltanto in una logica di investimenti effettivamente commisurati al nostro fabbisogno e di riconversione strutturale che guardi anche all’esperienza delle bioraffinerie che si iniziano a sperimentare con successo in altre parti del mondo”.
Lo ha dichiarato il segretario della UILCEM (Unione Italiana Lavoratori Chimica Energia Manifatturiero), Augusto Pascucci, con l’obiettivo di richiamare l’attenzione sulla necessità di misure di lungo periodo per fronteggiare la crisi di un settore che rappresenta un asset strategico per le necessità energetiche del nostro Paese. Una posizione ribadita anche congiuntamente con i sindacati di categoria della Cgil e della Cisl nel corso di una recente Audizione in Commissione Attività Produttive della Camera e attraverso l’avvio di un Tavolo con il Ministero Sviluppo Economico e UP che inizierà a lavorare nelle prossime settimane.
“Fino a pochi decenni fa l’Italia era il primo operatore europeo della raffinazione. Oggi stante una sovraccapacità produttiva stabilizzatasi intorno ai 30 milioni di tonnellate annue – ha proseguito Pascucci - soltanto nell’arco di due o tre anni sono a rischio almeno 4-5 raffinerie di piccole dimensioni per un totale tra diretto e indotto di 8-9000 addetti. E la crisi interessa tutta Europa con tutti i principali gruppi impegnati in operazioni di chiusura, dismissione o cessione di impianti”. Una situazione destinata a peggiare per via della crisi e della progressiva riallocazione dei consumi verso combustibili più rinnovabili, a cui va aggiunto il crollo dei ricavi e l’affacciarsi sul mercato di raffinerie di enormi dimensioni e di distillati più competitivi del carburante “made in Italy” ma meno adeguati sul piano delle garanzie sociali e ambientali.
In questo contesto, senza interventi di politica industriale e una seria programmazione, le 16 raffinerie italiane saranno quasi tutte destinate ad andare fuori mercato. Due, per UILCEM, gli assi portanti di questi interventi. Il primo è la definizione del perimetro del nostro fabbisogno energetico in termini di “Economy Capacity” come è stato fatto nel settore della produzione di energia e quindi ammodernando su queste basi gli impianti esistenti e favorendo sinergie con i comparti power e petrolchimica. Indispensabili oltre ai tradizionali meccanismi di ammortizzazione sociale anche normative ad hoc, ad esempio per la velocizzazione delle autorizzazioni alle concessioni o il sostegno ai biocarburanti.
Il secondo asse è quello di una riconversione ad uso civile ed ecologico delle raffinerie ponendole al servizio delle comunità locali quale parte integrante del completamento del ciclo dei rifiuti per la produzione di biogas o riutilizzandole per la produzione di etanolo – che in forte misura importiamo dall’estero – attuabile all’interno dei grandi petrolchimici senza investimenti imponenti. Si tratta delle cosiddette bioraffinerie che iniziano a svilupparsi anche in paesi come Stati Uniti e Canada, con alcune esperienze di successo proprio a partire da brevetti italiani (Luciano Patorno insieme a Nancy HO). E’ il caso ad esempio della Yogen Corporation a Toronto che dal 2003 produce bioetanolo con ottime rese energetiche (350 litri per tonnellata di umido) e una produzione di 30 milioni di litri l’anno, della raffineria di Harrisburg capitale della Pennsylvania o degli impianti per la produzione di biogas di Rotterdam e Amsterdam. Esperienze pilota che, secondo UILCEM, andrebbero verificate e quindi valutate anche per l’Italia e a cui non a caso stanno guardando primari operatori mondiali delle tecnologie ambientali e Paesi come la Cina.