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Roberto Pasanisi (a cura di), Con le armi della poesia. Antologia della poesia italiana contemporanea, ICI Edizioni

30/04/10

Erensto L'Arab, Il ‘lungo Novecento della poesia italiana’. Il lavoro letterario fra crocianesimo e postmodernismo. Recensione a Roberto Pasanisi (a cura di), Con le armi della poesia. Antologia della poesia italiana contemporanea (Introduzione di Sergio Givone; Prefazione di Ernesto L'Arab; Postfazione di Roberto Pasanisi) 2007 € 25 ISBN 88-89203-24-2

1. «La poesia non serve più a niente. Così ci dicono. Una volta i poeti erano coloro –Fortini, Sanguineti, Pasolini, Zanzotto- la cui parola era molto ascoltata. Quello della poesia ha cessato ormai di essere un linguaggio? Non è ormai la poesia italiana contemporanea, solo e semplicemente, «un sempre più stanco e stucchevole gioco di società? E non è forse […] la crisi e diciamolo pure l’evanescenza della critica di poesia, la prova provata, il come volevasi dimostrare, da un lato della crisi del soggetto, cioè della critica in generale, dall’altro del proprio oggetto – cioè, appunto, della poesia?»
È l’impegnativa domanda che si pongono i curatori d’una delle più interessanti e per molti versi innovative antologie poetiche di recente pubblicazione. Ci riferiamo a Parola plurale, pubblicata per i tipi della casa editrice Sossella di Roma e con l’attenta curatela – qui è la maggiore novità dell’opera – di ben otto giovani studiosi. Condividiamo il giudizio che in una sua recensione Riccardo Donati dà dell’antologia, davvero innovativa da un punto di vista metodologico anche perché frutto di un lavoro collettivo. «Quello che più colpisce», scrive Donati, «non è soltanto la decisione di rinunciare al titanismo della singola personalità ‘autoriale’, […] ma anche e soprattutto la sincronia generazionale di questi [curatori] – tutti nati tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, dunque piuttosto giovani […]. Ad accomunare questa “pattuglia di guastatori” c’è una militanza movimentista, eticamente e politicamente agguerrita ([…] ne è una spia l’impiego di termini […] in aperto contrasto con l’aziendalismo della letteratura mainstream).». Eppure, dopo un così promettente esordio che sembra volere affrontare un punto critico dell’attuale dibattito intellettuale – quello cioè, della vera o presunta ‘crisi della poesia’ – gli autori, attraverso la penna del loro portavoce, affermano che tale crisi è dovuta, in fondo, ad una ‘crisi della forma’. «Un connotato fondamentale della poesia recente appare l’abbandono così frequente a una scrittura ‘informale’, ma non già ricercata per calcolo sperimentalistico e volontà di interrompere i circuiti comunicativi normali, quanto piuttosto prodotta da libera fluttuazione psicologica e dall’immersione nello scorrere indifferenziato del vitale e del quotidiano» .
La direzione presa dai curatori de La parola plurale, ci appare, a questo punto assai poco convincente. La crisi della poesia sarebbe dovuta a ragioni, in un certo senso, interne ad essa, alla sua ‘forma’. Ragioni puramente letterarie. Non è difficile individuare in questo atteggiamento il persistere di una mentalità idealistica che troppo spesso risorge sotto le mentite spoglie del ‘Postmodernismo’ e che vede nella poesia un ‘assoluto’ estraneo alle comuni, ‘volgari’ logiche terrestri.
2. Se di crisi si deve parlare non sarà forse della più generale crisi – ma è stata crisi o trasformazione? – del lavoro intellettuale? Che, a seconda degli autori, si può collocare ben prima del 1968, come ritengono i curatori de La parola plurale nel loro saggio introduttivo.
Ed è crisi avvertita già con singolare acume da una generazione di intellettuali nati sul finire degli anni ’20 del ‘900, che aveva visto crollare l’illusione di una generale palingenesi della società italiana dopo le terribili ferite materiali e morali della dittatura e della guerra. Che aveva creduto per un certo tempo potere addirittura guidare la trasformazione e il rinnovamento, forte di un prestigio ancora intatto, e che invece si scopriva impotente non solo, com’è ovvio, a controllare, ma persino a comprendere fino in fondo le dinamiche del ‘neocapitalismo’ che imponeva agli italiani un mutamento antropologico profondo, pur incoraggiando in tutti i modi la fedeltà ad antichi vizi.
3. Certo che c’è crisi, nella poesia di Pasolini; ma non solo «crisi della forma». Per il poeta friulano è impossibile al termine di quel processo per lui terribile che è stato il ‘Miracolo economico’ conciliare impegno etico e poesia. Pasolini ed altri intellettuali come Fortini, Sciascia, tanto per fare dei nomi, avvertono che l’Italia repubblicana non vuole né può realizzare il collettivo sogno di rigenerazione della Resistenza. Non dopo Portella delle Ginestre; non dopo Piazza Fontana. Non dopo la scoperta delle trame golpiste con mafiosi e neofascisti, militari greci sullo sfondo di una generale, diffusa nostalgia autoritaria del ceto medio. Per il poeta ‘corsaro’ è impossibile calare nell’antica politezza formale della grande lirica novecentista i contenuti nuovi che quella fase storica imponeva affrontare. La ‘crisi della forma’ è strettamente legata ad una crisi storica che porta Pasolini, nella sua ansia di comunicare, a sperimentare altri strumenti espressivi, il cinema, ma anche il giornalismo. La crisi lo porta ad una singolare eppure efficacissima commistione di generi e di ruoli intellettuali. È difficile, per dire, se si debba ancora considerare ‘Il romanzo delle stragi’ un puro e semplice articolo di giornale o uno dei più alti esempi di ‘poesia civile’ del ‘900 italiano. Un puro gesto di provocazione poetica. Una poesia scritta ‘male’ come ‘male’ sono sempre stati costretti a scrivere i grandi innovatori della letteratura italiana (non si è detto lo stesso di Svevo? di Pirandello?), poiché l’antica e nobilissima ‘Forma’ – con la maiuscola, naturalmente– della Tradizione riusciva ad esprimere solo antichi –e magari, perché no, nobilissimi– contenuti.
4. La sua, come ha ben spiegato Leone De Castris , è la drammatica contraddizione di chi vuole cambiare un mondo ingiusto continuando a scrivere versi. Per essere poeti è necessario ‘regredire’ ad uno stadio sentimentale e pre-logico; eclissarsi dal mondo della storia, dell’impegno, del presente, per tornare a quello della nostalgia, dell’innocenza, dell’infanzia. Ma per l’intellettuale marxista questa ‘regressione’, anche momentanea costituiva una grave colpa. «Pasolini istituisce un’opposizione irreversibile (…) tra poesia e storia-ragione-rivoluzione, cioè tra condizione poetica (che ha come riferimento il passato) e condizione politica della trasformazione (il presente, la prospettiva del futuro) […]. Nella storia, per Pasolini, è la borghesia, il capitale, la violenza, la Chiesa, la speculazione edilizia; ma anche le masse, il proletariato, il partito, la lotta di classe, la politica. Fuori dalla storia è l’infanzia, la madre, la natura, la diversità, il mito, l’innocenza, le borgate romane e poi l’Africa, il terzo mondo» .
Ed il frutto più maturo di quella crisi sarebbe dovuto essere l’incompiuto romanzo Petrolio, una sorta di ponderosa ‘opera totale’ alla quale il suo autore aveva rivolto tutte le sue energie. La scelta dell’ultimo Pasolini sembrerebbe essere stata non la rinuncia alla poesia, ma il superamento della sua ‘forma’; il rifiuto della tradizione novecentista e il recupero di una linea etica e civile fortemente ‘anti-lirica’.

5. Come può un critico cercare di comprendere qualcosa del profilo intellettuale di Pasolini o di qualunque altro scrittore, rinchiudendosi nel recinto dello specialismo letterario? Non considerando il contesto storico nel quale Pasolini operò, quindi il ‘mutamento antropologico’ generato dal consumismo, quindi la Strategia della Tensione, quindi il golpismo: come si può considerare ognuno di questi elementi un «avvenimento extraletterario». La storia, in base a tale modo di concepire la critica, sarebbe non la condizione stessa dell’operare umano ma una sorta di esornativo accidente in cui può accadere di incappare per puro caso. La storia come un’entità extraletteraria. Non già la condizione stessa dell’operare umano. Anche dell’operare poetico. Cos’altro sarebbe la poesia, allora, se non un prodotto del lavoro umano? Che, come tale, risente degli eventi storici, è dentro di essi; da essi scaturisce. Siamo ancora all’idealismo. Gli autori sembrano intendere la poesia al massimo come storia di una Forma letteraria.
I limiti del presente scritto non ci consentono, ovvio, che di fornire qualche sommario spunto di riflessione in proposito.

6. Il napoletano Roberto Pasanisi è, per dire, un poligrafo che non ha mai disgiunto la sua attività poetica da un intenso impegno come animatore culturale, pubblicista, direttore di un Istituto, l’ICI, da sempre in prima linea in quel tentativo anche culturale – o innanzitutto culturale – di ‘risanare’ il Sud e la sua capitale, Napoli, da antiche piaghe. La rivista “Nuove Lettere”, di cui è fondatore e direttore, ha sempre pubblicato, accanto alla migliore poesia italiana ed internazionale, editoriali che denunciavano senza remore specifici episodi di corruzione e collusione del ceto politico con la malavita organizzata. ‘Eventi extraletterari’ e Letteratura: camorra e Brodskji; Tangentopoli e Pasolini; degrado sociale e Matvejević. Sembra essere rimasto, nell’intellettualità meridionale, anche dopo la terribile crisi etico-politica degli anni ’80-’90, dal craxismo a Tangentopoli, il precipitato dell’antico ‘impegno’ meridionalista. Un impegno che ha sviluppato nuove caratteristiche, trasformandosi, ad esempio, nell’idea di ‘meridianità’, della quale si è fatto portavoce Raffaele Nigro. Tale idea implica che l’impegno degli intellettuali non debba più –o, meglio, non debba solo– rivolgersi al Mezzogiorno d’Italia ma, anche agli altri Mezzogiorni, partendo da quelli che si affacciano sul Mediterraneo e dai quali deriveranno i nuovi problemi o le nuove opportunità con cui dovranno fare i conti l’Italia e l’Europa. Di qui l’attivismo di Nigro che come giornalista, romanziere, poeta, come animatore culturale del “Premio Grinzane”, ha sempre cercato di creare legami tra gli intellettuali italiani e quelli di Grecia, Albania, Montenegro, Tunisia. 7. L’epithàphios di Pasanisi Amarti è ricordarsi di un risveglio è pervaso da una religiosità che indurrebbe a precisare alcune recenti acquisizioni critiche – peraltro assai caute come deve essere quando si giudica l’opera in fieri di un contemporaneo – di indubbio acume e competenza sull’autore napoletano. Si è parlato, infatti, dell’ «assenza di una dimensione metafisica (religiosa o laica che sia)» dall’orizzonte biografico e creativo dell’autore. Eppure, l’atmosfera complessiva e in particolare la chiusa della poesia, «aspettami nell’eternità», nella quale lo sguardo materno diviene per il figlio promessa di salvezza, dànno alla lirica un’innegabile, intrinseca connotazione religiosa, derivi essa dalla fiducia nella salvezza ultraterrena o abbia al contrario il valore tutto immanente di una necessaria illusio consolatoria. E se la distesa sonorità anapestica del ‘verso lungo’ rimandano a Pavese, certo, ma soprattutto a Montale, a Satura in particolare, per l’ampia cadenza metrico-ritmica con cui l’autore ligure aveva reso l’intonazione colloquiale delle liriche per la sua ‘Mosca’; il cromatismo della poesia di Pasanisi, l’azzurro dell’aurora, fanno pensare alla tavolozza della poesia cattolica entre-deux-guerres .
L’azzurro del cielo è in poeti come Betocchi, Fallacara e, naturalmente, Luzi, il colore di quella sede oltramondana alla quale l’anima tornerà una volta liberatasi dalla sua cattività terrena. Si tratta d’una tonalità che per Luzi «appartiene non tanto, forse, alla radiosità del mattino quanto alla profondità. Lo spazio profondo ha questo colore che poi diventa anche quello del tempo. Tempo e spazio sono inscindibili. Quando io penso al tempo lo penso di quel colore.»
Anche nelle precedenti opere di Pasanisi è, poi, determinante da un punto di vista semantico l’opposizione fra tenebra e luce che sembrerebbe risentire di suggestioni dantesche. La luce nascente d’un’aurora «romantica tersa» illumina di speranza «Amarti è ricordarsi…». Nel romanzo Gli angeli è la donna amata a portare con la sua presenza rari squarci di luce nell’esistenza del giovane intellettuale senza nome, protagonista della storia. L’assenza dell’amata lo «precipiterà in un baratro di centinaia di metri», in un buio senza fine.
Ma c’è un altro elemento che a nostro avviso accomuna la poesia di Pasanisi a quella luziana e latamente ermetica, ed è la concezione dell’esistenza come ‘attesa’; concezione collegata, negli ermetici, con la concezione di ‘assenza’, «prezioso concetto in cui risiede il senso della poesia pura […] una moderna forma di “sublime”, di tensione etica perenne» verso un ‘altrove’ dove si intravede la salvezza e, forse, la felicità; un ‘altrove’ confinante col mondo presente e reale e che l’Io lirico non è in grado di varcare, forse perché allude al ‘luogo altro’ per eccellenza che è l’aldilà. Crediamo, a tale proposito, sia possibile individuare nella poetica dell’autore una linea allegorica predominante che definiremmo ‘liminare’. Ci riferiamo, sulla base d’una cursoria disamina degli scritti di Pasanisi, ad un nucleo di situazioni ed immagini nelle quali predomina il concetto di confine dal punto di vista spaziale, e quello di ‘passaggio’ da una fase astronomica all’altra, dal punto di vista temporale. Ci riferiamo, è chiaro, all’aurora, momento di magica sospensione durante il passaggio dalla notte al giorno. È anch’essa, dunque, un momento per così dire ‘liminare’ ben presente, del resto, nella langue poetica del Novecento ermetico. Si pensi alla «pueril notte» e al «mortal cielo» di Luzi; «due momenti che insieme all’alba, per la sensazione di indefinitezza e per l’attenuamento della percettibilità che comportano, già in quegli anni entravano di diritto nel repertorio poetico degli ermetici».
Con Metafisica delle pulizie, siamo agli antipodi di quel «domestico che atterrisce» di cui parla Paolo Zublena. Se «la percezione dell’identico, dell’indeterminata ripetizione, diventa ennui» e se «la noia è il quotidiano che diventa palese, perdendo di conseguenza il suo carattere essenziale – costitutivo – di essere inosservato». Se, ancora, «fare l’esperienza del quotidiano significa sottoporsi alla prova del nichilismo radicale che ne è come l’essenza» . Pasanisi sembra avere trovato nell’ironia un possibile antidoto al nichilismo. «Una scia di dolcezza percorre la casa… / È passato un angelo? / Dal tocco duro e leggero? / Dalle piume leggere e dallo sguardo accigliato, / […]». Versi caratterizzati da quello che i teorici del Postmoderno letterario chiamano: ‘double code’. Ad una sommaria ricognizione intertestuale appare ricorrente nella poesia pasanisiana il tema della Donna-Angelo, figura allegorica, creatura apportatrice di salvezza. La ‘doppia codifica’ permette all’autore di affermare questa verità negandola nel contempo, quasi a volere ricordare a se stesso che il credere nella donna-angelo è un puro effetto della propria chisciottesca volontà di autoillusione.
Un raffinato gioco di rimandi letterarî è alla base di Quartetto, citazione di una poesia che cita altre poesie. Esso rimanda, infatti, a «A Madame Lullin», di Voltaire, ma anche ad Ezra Pound che l’aveva rielaborata oltre che ad un’elegia di Tibullo (I). Il «Quelquefois un peu de verdure / Rit sous les glaçons de nos champs» che in Voltaire, già vegliardo, si riferiva alle rare gioie dell’età avanzata, diventa «Fiore che spunta di sotto la neve, / animali che amano tardi nell’anno».Il «Te spectem, suprema mihi cum venerit hora» di Tibullo, diviene: «E del suo incanto dire poté nel suo Latino Tibullo: / “Che io ti guardi, Delia, mentre svanisco».

8. La tematica pasoliniana del recupero dell’identità locale contro l’omologazione echeggia nei versi di La mia non è guerra osca, lungo poemetto di Domenico De Luca. «[…], Non è guerra la mia, […], /» scrive De Luca, consapevole di quanto sia velleitario tentare l’assalto diretto ai temibili panzer della ‘cultura dominante’. «È solo il fruscio di un incedere molto / lento e cauto che cerca conoscenza / contro il passo pesante del più sordo / carro armato di stato, muto freddo, /». Un ricordo d’infanzia – un’infanzia felice, nonostante l’incombere della guerra – è al centro del Lo schianto del grande ciliegio in primavera. Il grande albero centenario «che ci ridava le dolci ciliegie / Cefrune» si schianta «abbracciato alla terra come un Golia / piegato nella povertà del fiore. /» L’Io lirico e i suoi compagni di giochi assistono all’evento «muti e fermi / a guardare coi venti dell’infanzia perduta sotto un temporale.». «Perdita della divinità» è un’amara meditazione sullo svilimento della vita umana, sulla perdita della sua sacralità. «È orrenda», scrive l’autore, «l’inimicizia dell’uomo. / È orrenda la morte di un bimbo. / Chi uccide / », conclude l’autore
9. L’impressionismo è il carattere dominante delle liriche di Giuliana Rosini, nelle quali gli elementi paesaggistici, il manifestarsi della natura, pure còlti con acuta capacità di osservazione non hanno mero valore ‘raffigurativo’, ma esprimono (‘rispecchiano’) gli stati d’animo dell’ ‘Io lirico’. Così il «batter d’ali-/rapido fruscio/ somiglia», scrive l’autrice, «al mio sgomento-/ malessere strano», con immediata corrispondenza, quasi senza soluzione di continuità tra dato esterno ed intimo sentire. Permea la poesia della Rosini una sorta di ‘panismo’ rovesciato, in cui vi è pure identificazione con la natura, ma non certo il sensuale, solare abbandono del D’Annunzio ‘alcionio’; bensì la consapevolezza di un comune patire (cum-pati) del creato ad ogni grado nella scala degli esseri. I colori freddi, e sfumati di queste liriche, la predilezione per le atmosfere brumose di neanche troppo vago sapore pascoliano, che ottundono i sensi, smorzano i rumori («ascolto le campane-/ un suono opaco,/[…]» sono ‘correlativi oggettivi’ di una sofferta condizione esistenziale. Ha la dolente grazia rivelatrice di un Haiku la poesia Foglie strane: foglie che sullo sfondo del cielo appaiono come dei lividi, i segni di una sofferenza violenta che il giorno ha inferto al creato ed all’ ‘Io lirico’. Esse «uncini contorti / nel tramonto /» raffigurano, agli occhi dell’autrice «l’echimosi / della sera».

10. È una commossa meditazione sul valore soterico dell’arte, la poesia Il pianista, di Natalizia Pinto. In essa l’autrice pugliese rende omaggio all’omonimo film di Roman Polanski tratto dalle memorie di Wladyslaw Szpilman, importante musicista polacco di religione ebrea che riesce a salvarsi proprio in virtù delle sue eccelse doti artistiche. Sarà prima un agente della ‘Polizia ebraica’ del ghetto di Varsavia a favorirne la fuga impedendogli di salire sul treno per i campi di sterminio; sarà, in seguito, un ufficiale nazista a proteggerlo dopo avergli sentito suonare Chopin, mentre intorno Varsavia in macerie continua ad essere bombardata. Proprio a questa scena, che se non fosse vera farebbe pensare ad un’attualizzazione del mito d’Orfeo, ammansitore di belve, sembra pensare l’autrice quando scrive: «Amore / conoscenza / sul confine / della fine / s’avvertono / importanti». Non abbiamo citato a caso il mitico musicista, poiché riteniamo che in un’ottica intertestuale si possa ravvisare nella produzione della Pinto più d’una prova della sua concezione della poesia assai vicina a quella ‘orfica’ e ‘neo-orfica’ . Concezione intesa come esaltazione della «funzione della parola la quale […] rivela l’essenza dell’Universo al poeta, rendendolo coscienza superiore» della condizione umana e «strumento conoscitivo privilegiato. » L’arte, afferma la poetessa nella strofa conclusiva «[…] vince / in note / diffonde / amore.»

11. Il paesaggio garganico è fin dagli esordi sullo sfondo delle liriche del manfredoniano – ma nato a Monte Sant’Angelo nel 1922 – Cristanziano Serricchio; e sono, gli aspri paesaggi della ‘montagna sacra’ e le acque dell’adriatico sulle quali s’eleva, due importanti campi semantici della sua poesia. La vita stessa è spesso assimilata dal poeta ad una traversata del mare: «la vita fu penoso remigare / in mari senza prode», scriveva, ad esempio, nella poesia Ai muri chiama il sole . Ancora, essa è, nelle liriche presenti in questa antologia: «il viaggio compiuto su fragile legno» .
La durata stessa della vita, il tempo che le è concesso, viene icasticamente raffigurato come un ruscellare di acque nell’alveo d’un burrone: «scorrono continue le acque della vita. / Le nostre sono scese improvvise / nella forra senza sorgiva già quando / moriva il mese più corto». Oppure, più esplicitamente: «non aveva fretta la vita nell’acqua del tempo». E se le mete verso le quali si tende rivelano spesso di essere solo delle «rive fittizie» e ogni possibile ipotesi consolatoria impraticabile, poiché, come scrive Serricchio, è «inaccessibile il porto», continua, tuttavia, quale lontana ma inesausta speranza, a baluginare in lontananza «la tenue luce del faro / dopo il vento e la tempesta / e l’ansia del dire e del fare / nell’aria sbalordita del giorno» .
Riaffiora continuamente in Serricchio, nel corso di tutta la sua carriera poetica, una profonda vena religiosa, molto evidente nella raccolta L’occhio di Noè che «contiene in nuce l’anelito alla preghiera e alla ricerca del Divino, ossia i pressanti interrogativi che costituiranno la tematica di fondo» di quella raccolta. E questa religiosità traspare, ad esempio, in «Ti attendono i pini ricurvi», uno degli Xenia per la moglie scomparsa, presenti in questa antologia. La nostalgia per la persona amata diviene ‘attesa’ per il momento in cui il poeta vedrà «[…] l’anima spoglia / del sogno terreno librarsi con la sua veste pura / nel cielo chiaro del nuovo mattino» . Stavolta è l’anima ad essere paragonata ad un vascello, il quale salirà «a scoprire / paesaggi diversi oltre il mare colmo / di queste ore, immagini e rumori, / silenzi e aromi d’un viaggio interminato. // Piccoli segni a cercare, anche nel buio, / oltre le invisibili rive del tempo, l’eterno, che ha dentro sé questa breve / tenera luce del sole e della neve».
Ci sia consentito ricorrere ancora una volta, per commentare questi versi del poeta pugliese, ad alcune illuminanti notazioni critiche di Daniele Maria Pegoraro circa la nozione di ‘attesa’ così presente nella lirica cattolica del dopoguerra. nozione, che scaturisce ovviamente dalla tensione escatologica di chi ritiene in base alle proprie convinzioni religiose, che quella terrena sia una condizione imperfetta e di momentaneo ‘transito’; ci pare in qualche modo affiori nei versi di Serricchio contenuti in questa antologia e si fonda con l’altra nozione di cui parla Pegoraro, quella di ‘assenza’, nel caso specifico, l’ ‘assenza’ dell’amata compagna, che rende ancora più struggente il desiderio di ricongiungimento col ‘divino’. Si tratta di tematiche e modalità espressive, scaturenti, certo, dalla biografia dello scrittore; ma non si può fare a meno di notare che Serricchio abbia gravitato per un certo periodo di tempo intorno al gruppo della rivista «L’Albero», del poeta cattolico Girolamo Comi, una delle personalità più forti ed interessanti della poesia meridionale novecentesca.

12. Nato a San Marco in Lamis (Foggia) ed emigrato negli Stati Uniti d’America nel 1947, Joseph Tusiani è autore di poesie in quattro lingue (inglese, latino, italiano, dialetto garganico ), e traduttore internazionalmente noto dall’inglese e dall’italiano. Il suo volume The Complete Poems of Michelangelo è distribuito dall’UNESCO in molte nazioni e le sue versioni della Gerusalem¬me Liberata e del Mondo Creato del Tasso sono in tutte le biblioteche più note del mondo anglosassone, che ha ugualmente accolto con grande interesse la traduzione delle liriche dan¬tesche, Dante’s Lyric Poems e quella del Morgante di Pulci, con i suoi quarantamila versi.
Primo fra gli americani ad aver vinto, nel 1956, in Inghilterra, il prestigioso premio di poesia “Greenwood Prize”, Tusiani è stato direttore della “Catholic Poetry Society of America” e vice direttore della “Poetry Society of America”, due delle più importanti associazioni poetiche degli Stati Uniti.
Ci è sembrato opportuno fare tale premessa che apparirà assolutamente scontata a chi già conosca anche solo superficialmente questo importante autore per fornire, nello spirito che anima Con le armi della poesia, le coordinate necessarie a conoscere – meglio: ad ‘intraprendere’ la conoscenza – di un’esperienza poetica straordinariamente articolata e complessa, come quella tusianea. La nostra cautela è dettata dalla consapevolezza che una lettura non superficiale della sua opera sarebbe possibile solo tenendo conto della produzione complessiva dell’Autore, come del resto si è fatto nel corso di numerosi convegni internazionali. Altri e con ben altro bagaglio di dottrina, dal loro versante di specifica competenza hanno analizzato in numerose e dottissime pubblicazione la poliedrica produzione poetica del poeta di San Marco In Lamis. Noi ci limiteremo tenendo sempre d’occhio le acquisizioni critiche di quegli esperti, a segnalare al lettore alcune caratteristiche delle liriche italiane, qui antologizzate, tratte dalla raccolta Il ritorno . In esso ci paiono ravvisabili, due tra le caratteristiche fondamentali individuate da Cesare Foligno e Sergio D’Amaro, tra gli altri: da un lato, un’inclinazione fortissima alla poesia meditativa, «religioso stupore di fronte alla grandezza tragica della vita» , che tende ad analizzare con «serietà dolorante» , anche se in un’ottica profondamente religiosa, l’umana condizione; e dall’altro lato, la grande importanza data alla musicalità del verso. Riguardo il primo aspetto, pare a noi che Tusiani abbia trovato l’esempio di quella inclinazione meditativa nei suoi prediletti inglesi, Wordsworth (argomento della sua tesi di laurea), Pope, Browning, Dickinson e, crediamo, in particolare Donne con le sue ‘geometriche’ metafore di derivazione scientifica ed astronomica . Nella poesia italiana del ‘900, dominata dal filone ‘novecentista’, e dal ‘mito’ della ‘poesia pura’, da un lato e influenzata dal crocianesimo che vedeva nella riflessione un elemento allotrio, ‘struttura’, ‘non poesia’, dall’altro, la poesia tusianea, con la sua calda eloquenza di derivazione latamente carducciana , col suo recupero del Dante loico e teologo, col suo dettato improntato al ragionamento filosofico: sembrerebbe costituire una rarità, meritevole di più attenta considerazione da parte di tanta critica, ‘accademica’ o ‘militante’ che sia.
Riguardo il secondo aspetto della poesia del sammarchese, quello della sonorità del verso, basterà al lettore scorrere appena le sue liriche, per rendersi conto di quale importanza abbia per un melomane come Tusiani la musica: «avant toute chose, la musique», potrebbe egli ripetere, con Verlaine. Si consideri, a tale riguardo, la poesia Sentore di primavera: «Oh, che ventura vana, / quest’orlo anacronistico di neve / che ancor resiste all’urgere / di polle e di virgulti, / ora che su quel colle / il primo ramo imbianca indiademato, / ora che l’ultimo inverno si sgrana / in ricordi d’un incubo passato.»; o lo splendido incipit di Risacca: «Quasi giuliva per raggiunta pace, / vaga risacca blanda / sulla sabbia s’espande con un ultimo / brivido di domanda: / non può a se stessa rispondere / ma si richiede quasi sospirando / come mai possa in un attimo opale / dimenticare tempesta d’abisso / e ingenuamente calma ricantare, / calma d’amante mare». O in Pioggerella, «[…] / A me parete/ tutte uniformi, gocce / che, l’una dopo l’altra e sopra l’altra, / caste cadete e calme, / ma, disuguali tutte, vi sospinge un ordine o un amore / di cui non colgo senso.». Avanziamo cautamente l’ipotesi che traspaia nei versi di questo poeta, una concezione sostanzialmente ‘figurale’ della realtà. La realtà fisica, quella che si vede, al Tusiani poeta e ‘teologo’, al cattolico di profondo sentire, all’autore delle Odi sacre , non basta; i suoi dati paesaggistici non sono spunti di idillica contemplazione, ma rimandi ad una realtà più profonda ed autentica, secondo un’ottica, appunto ‘figurale’. In base ad essa «la vita è bensì assolutamente reale, della realtà di ogni carne in cui è penetrato il Logos, ma con tutta la sua realtà è soltanto ‘umbra’ e ‘figura’ di ciò che è autentico, futuro, definitivo e vero, di ciò che, svelando e conservando la figura, conterrà la realtà vera.» Ed ecco che le gocce di pioggia non vengono semplicemente ‘percepite’ come puro dato sensoriale; ma interpretate quale segno di un significato diverso e più autentico: «ma, disuguali tutte, vi sospinge / un ordine o un amore di cui non colgo senso». Il dubbio riguarda l’interpretazione dell’evento, non il suo riferirsi ad una verità ultramondana. «Immenso, chiamo immenso (altro non posso) / il numero che siete; / ma Qualcuno / certo quel numero esatto conosce, / e di voi tutte, ed anzi di ciascuna, / sa veemenza e multiplo valore».

13. Intorno ai “Quaderni del sud”, dapprima collana delle Edizioni Lacaita di Manduria e in seguito autonoma editrice garganica, pugnace e attivissima, intesa alla rilettura non provinciale della cultura e della poesia popolare , si raggruppava intorno alla metà degli anni ‘70, il cosiddetto ‘Gruppo di San Marco In Lamis’ . Cosma Siani , Antonio Motta, Sergio D’Amaro, Michele Coco, insieme o singolarmente, sovente con l’apporto di altri studiosi del piccolo centro daunio, ma sempre in singolare consonanza con alcune tra le più alte voci della cultura ‘nazionale’ del ‘900 – un nome per tutti: Sciascia – avevano curato pubblicazioni di straordinario interesse per il meridionalismo di quegli anni. Libri come Lu trajone di Francesco Paolo Borazio, autentico gioiello della letteratura dialettale novecentesca che aveva suscitato l’interesse di Pasolini; A pietra e pane , di Antonio Salvato, memoriale di un bracciante del sud; A caccia di briganti in terra di Puglia, prefato da Leonardo Sciascia , testimoniano la ‘militanza’ del gruppo: l’ impegno scevro al tempo stesso da soggezione nei confronti dell’establishment culturale - che non di rado continuava a guardare al Sud con un misto di paternalismo e sufficienza- e da chiusure campanilistiche.
Lo stesso impegno si ritrova nella prima raccolta poetica collettiva del ‘gruppo’ : Mitolatrie . La parte della raccolta scritta da Cosma Siani , intitolata Polypurus, rivelava un «interesse per una tematica ‘meridionale’» e «tensioni di una moralità più assoluta, […] indugi memoriali e descrittivi, con l’uso di un lessico di forte spessore letterario» che ne facevano individuare i presupposti in suggestioni di «lirica ‘alta’, da Leopardi al grande decadentismo, […]». Michele Dell’Aquila tratteggiava col suo consueto acume un tratto assai caratteristico dell’intero ‘gruppo’ e di Siani in particolare: la volontà, cioè, di svincolarsi da certi tratti del meridionalismo e della lirica da esso ispirata che non di rado diventava ‘maniera’, una sorta di Arcadia lamentosa e vittimistica, incentrata sul binomio lirico «terra/dolore» o «mito/infanzia ». Così, la poesia di questi due autori si aprirà significativamente a tematiche di ampio respiro. Motta, per dire, tratterà in Mitolatrie, nella sezione intitolata Napalm, della guerra in Vietnam, che «entra nelle … ossa vuote» dei più piccoli, che semina la morte dal «volto acerbo / come il vento dei monsoni» che distrugge «le case, i raccolti, le fabbriche / i bambini, gli anziani». E in Mani legate affronterà sgomento uno degli ‘eventi extraletterari’ più angosciosi e gravidi di conseguenze per la storia repubblicana: la ‘madre di tutte le stragi’, quella di piazza Fontana . In Mitoclastie, Giuseppe Zagarrio vedrà il tentativo del ‘Gruppo di San Marco in Lamis’, di fare emergere un «Sud aspro, indurito, svuotato dal vecchio fascino melico/idillico, demistificato fino al punto da essere ridotto a “paese ridicolo”»

14. Shards, Cocci, si intitolano una serie di Haiku di Cosma Siani presenti in questa antologia. Il titolo parrebbe ricondurre a quella certa ‘linea ligure’ della poesia italiana di inizio ‘900, con la sua ‘poetica dello scarto’ che va dai Trucioli di Camillo Sbarbaro fino, naturalmente, agli Ossi montaliani. La rappresentazione del quotidiano è al centro di queste poesie. Rappresentazione d’un iperrealismo a tratti allucinato che ha fatto giustamente parlare nel caso di Siani di una «vena iperosservativa». Ma la descrizione degli eventi minuti di cui è intessuta l’esistenza umana e degli oggetti quotidiani, è ben lontana da tardive ambizioni naturaliste o –per venire ad anni più recenti e ad una corrente letteraria certo nota al Siani anglista– ad atmosfere neominimaliste; essa è, piuttosto, la base di un’allegoresi morale. Si veda, per fare un esempio, I. Lessico Pc: «È uno dei momenti: dimmi il tasto / che la vita formatti, ricomponga / Nell’agio d’una sola videata». L’evento di minima importanza provoca una sorta di benjaminiana ‘illuminazione profana’; l’ ‘occasione’ nella quale è dato intravedere dietro la cortina polverosa del ‘domestico’, un barlume di senso.

15. Antonio Motta «nei suoi versi, ha bisogno dell’interlocutore. Ha bisogno sempre o quasi sempre di rivolgersi a qualcuno. Questa necessità immediata di identificare (comunque, di rintracciare) l’altro da sé, l’ombra che lo segue, o quello che definirei “il suo secondo narratore di storie”, è una conferma […] del realismo diretto che sta sotto questa poesia spesso vigorosa e, nel meglio, rigorosa». Così: Roberto Roversi , nella sua prefazione a Quante leghe, raccolta di poesie edita nel 1989. Un’interlocutrice, e d’eccezione, Motta la trova anche nell’Epicedio Dolente mia Ortese, dedicato alla grande scrittrice scomparsa che egli conobbe in qualità di studioso. «Lo spuntare dell’alba / ti trovò nell’incorruttibile / silenzio, / con il palpito del vento / e il mare celeste di fronte.» Sono versi di classico nitore nei quali è avvertibile la frequentazione dei lirici greci e della poesia quasimodiana; magari, delle stesse quasimodiane traduzioni dal greco. «L’anima», continua l’autore, «viaggia giovane / in compagnia dello stupore, / sale perplessa / fino al nuvolario, / da dove il mondo / una sfocata immagine che trema.». Ci pare abbia bene intravisto Michele Coco, una trentina d’anni or sono (1974), quando parlò di un rifiuto delle «tentazioni liriche gratuite» e del tentativo intrapreso da Motta di liberarsi «delle lusinghe meliche» e della «intellettualistica ricerca della immagine preziosa e rara» che lo ha condotto ad una poesia polita ed essenziale, ottenuta michelangiolescamente ‘per via di levare’.

16. Inedite o poco note sono le poesie di Maria Marcone , narratrice foggiana tradotta in tutto il mondo, che con i suoi libri, a partire dagli ultimi anni ‘60, ha saputo dare voce ed interpretare le profonde istanze di cambiamento che provenivano dalla famiglia italiana, in particolar modo meridionale, dopo il ‘mutamento antropologico’ causato dal Miracolo economico. Di ‘scrittura del sé’ parlò la critica, a proposito della narrativa di questa scrittrice, che poneva al centro dei suoi racconti la propria biografia di giovane donna ed intellettuale e che, in un Sud ancora caratterizzato da arretratezza e maschilismo, cercava affermare la propria dignità ed autonomia. Analisi in famiglia, pubblicato per i tipi della Feltrinelli (1977) resta il ‘romanzo’ autobiografico più rappresentativo di questa scrittrice ed uno dei più dirompenti fra quelli pubblicati nella storica collana “Franchi narratori”. La disamina senza reticenze dei motivi che hanno portato la malattia e la sofferenza all’interno di una famiglia nella Bari degli anni ‘70, provocò accese discussioni e accuse, così da parte conservatrice – attentato alla ‘sacralità’ della famiglia – come dagli ambienti femministi che premevano perché l’autrice radicalizzasse le sue posizioni. La Marcone si sarebbe, infatti, tenuta lontana da quegli ambienti femministi che negli anni Settanta spingevano verso una contrapposizione senza mediazioni al potere maschile. Ella teorizzava, invece, in anticipo su certe correnti dell’odierno ‘pensiero della differenza’, la ‘complementarietà’ fra uomo e donna, in nome di una parità dei diritti nel rispetto delle specificità di genere. Caratterizzata da intransigenza etica sempre più rara nel mondo delle patrie lettere – e non solo – che l’hanno spesso portata a «fare parte per sé sola» –; l’autrice è sempre stata orientata ad una ricerca autonoma ed ostinata di nuove soluzioni formali che rispondessero, però, a rinnovate esigenze morali. Esemplare è da questo punto di vista Storia di Franco (Fasano di Brindisi, Schena, 1998) nel quale ancora una volta, un dolente episodio autobiografico –l’uccisione del fratello, a Foggia, vittima di ancora oscure trame politico-mafiose– assurge a specimen di quella ‘questione etica’ nazionale, di quella generale esigenza di moralizzazione della vita pubblica che dopo Tangentopoli e le stragi di Capaci e di via D’Amelio, parve trovare il favore di un’ampia parte della società e della politica italiane. Con Storia di Franco, la ‘scrittura del sé’ si tramuta in letteratura civile.
Fra le poesie incluse in questo volume: Inno al mare. L’Io lirico si rispecchia nel mare, le cui caratteristiche ‘materiali’ corrispondono a quelle morali dell’autrice. «Quando i gabbiani / volano basso / sull’acqua / e la tua voce / diventa possente / che brontoli e ti scuoti / come un vegliardo infuriato / allora ti adoro / Mare /». La poetessa si riconosce nel mare, con un processo di personificazione gli si rivolge dicendo: «mi riconosco / tua creatura / come te ribollente di vita / come te irruenta e selvaggia.»
Anche la morte, il «Nemico in agguato», viene assimilata allo stesso elemento naturale, appunto il mare, che assume così connotazione semanticamente ambivalente: fonte di energia, di forza, di potere, ma anche possibile fomite di rovina. In un’ottica intertestuale, è come se l’Io lirico attribuisse possibilità distruttive a quelle stesse possenti energie vitali che le ribollono dentro: la potenzialità distruttrice come eccesso di forza vitale. «Avverto il tuo ansimare / torbido / alle mie spalle», dice l’Io lirico al Nemico, servendosi ancora una volta della figura retorica della prosopopea: «come l’onda procellosa / che all’improvviso / solleva il mare / placido prima e disteso». Ed è ancora un imperioso vitalismo al centro della lirica: Vento della mia terra. «vento della mia terra / che spazzi furioso / la piana del tavoliere / quando irrompi / dalle regioni del Nord / oltre le deboli difese / del Subappennino / urlando a squarciagola / la tua rabbiosa impotenza […]». Ma, l’imperioso manifestarsi di energia vitale eccessiva anziché assumere una connotazione negativa si rivela mera dissipazione e, appunto, «rabbiosa impotenza».
È auspicabile che la pubblicazione di queste poesie inedite possa servire ad una rilettura ‘complessiva’, finora soltanto vagheggiata, dell’opera di questa scrittrice, da parte della critica.

17. Questo dell’attività culturale intesa come impegno complessivo, attraverso la ‘bellezza’, per il bene comune, come impegno ‘politico’ – letteralmente: per il bene della Polis – è un po’ il filo conduttore che i curatori hanno cercato di seguire nel selezionare gli autori. Sono autori di formazione diversa e disparate esperienze. Alcuni di essi gravitano nell’orbita dell’ICI ONLUS e della rivista “Nuove Lettere”. Altri provengono da aree geografiche e hanno formazioni culturali le più disparate. Ma l’elemento che accomuna i poeti di Con le armi della poesia consiste, secondo il parere dei curatori che li hanno letti, studiati e scelti, nel non considerare quel tipo particolare di lavoro intellettuale che è la poesia, soltanto come uno «stucchevole gioco di società». È forse venuto il momento, come ha detto Romano Luperini , di chiudere una volta per sempre i conti con quel figlio più o meno legittimo dell’idealismo che è andato in giro per il mondo grosso modo per un paio di decenni sotto il nome di ‘Postmodernismo’. Dopo l’attacco alle Twin Towers; in un mondo con il 20 per cento della popolazione mondiale che consuma l’80 per cento delle risorse sembra essere venuto il momento per gli intellettuali di mettere da parte gli «acrostici indolenti» per cercare di fare fronte, con gli strumenti del loro mestiere, ai «barbari bianchi» che sempre più numerosi ormai premono alle porte della città.

Ernesto L’Arab





NOTE

AA.VV., 1975-2005. Odissea di forme, in Parola plurale. Sessantaquattro poeti italiani fra due secoli, Roma, Luca Sassella Editore, 2005, pagg. 7-29, pp. 7-8.
RICCARDO DONATI, Recensione a Parola Plurale, in “Poesia”, XIX, 202, 2006, p. 61.
Ibidem, p. 21.
ARCANGELO LEONE DE CASTRIS, Sulle ceneri di Gramsci. Pasolini, i comunisti e il ‘68, Roma, Datanews, 1997.
Ibidem, pp. 32-33.
Si veda la recensione che Domenico Cofano ha fatto di un recente romanzo di Pasanisi: DOMENICO COFANO, Gli Angeli, in “Incroci”, 11, 2005, pp. 192-94. Il romanzo è stato pubblicato nel 2004 per i tipi dell’editrice Ripostes (Salerno).
DANIELE MARIA PEGORARI, Dall’ «Acqua di polvere» alla «Grigia rosa». L’itinerario del dicibile in Mario Luzi, Fasano di Brindisi, Schena, 1994, p. 15. Non è, naturalmente, nostra intenzione ‘costringere’ ad ogni costo l’autore entro un recinto, quello, appunto della ‘poesia cattolica’. Crediamo solo di avere individuato un riferimento, magari soltanto letterario, a quella temperie culturale e a quell’indirizzo poetico.
Ibidem.
Ibidem, p.18.
Ibidem.
Si veda lo splendido saggio di PAOLO ZUBLENA, Il domestico che atterrisce. La tematizzazione del quotidiano nella poesia di oggi, in AA.VV., La parola…, cit., pp. 53-66.
PAOLO ZUBLENA, cit., p. 54.
Ibidem. Cfr. MAURICE BLANCHOT, La scrittura del disastro (a c. di Federica Sossi), Milano, SE, 1990, p. 330.
Del 2002. Interpretato da Adrien Brody, il film, vincitore a Cannes della “Palma d’Oro”, è tratto dal libro di WLADYSLAW SZPILMAN, Death of a city; tr. it: Il pianista: Varsavia 1939-1945: la straordinaria storia di un sopravvissuto (traduzione di Lidia Lax), Milano, Baldini & Castoldi, 2002.
ROBERTA RAMELLA, Sulle orme di Orfeo, in GIUSEPPE LANGELLA – ENRICO ELLI (a cura di), Il canto strozzato. Poesia italiana del Novecento. Saggi critici e antologia di testi, Novara, Interlinea, 2004, pp. 143-155, pp. 143-144.
CRISTANZIANO SERRICCHIO, L’ora del tempo, Lucugnano, “L’Albero”, 1956.
V. infra, Aprirò una finestra sulla terra.
Ibidem.
CRISTANZIANO SERRICCHIO, L’occhio di Noè, Padova, Rebellato, 1960.
GIUSEPPE DE MATTEIS, La poesia di Cristanziano Serricchio, in Cultura letteraria in Capitanata, San Marco in Lamis, Gruppo Cittadella Est, 1984, pp. 89-108, p. 92.
V. infra, Sarai con me quando vedrò l’anima.
Dell’Autore ci limitiamo ad indicare le sole opere di poesia italiana: Amedeo di Savoia. Poemetto in isciolt, (pref. di P. Ciro Soccio), Sant’Agata di Puglia, Tip. Casa del Sacro Cuore, 1943; Flora o primi fiori di poesia, s.l. [ma New York], s.e. [ma Prompt Press], s.d. [ma 1946]; Amore e morte o sogni delle quattro stagioni. Liriche, San Marco in La¬mis, Tip. G. Caputo, 1946; Petali sull’onda. Poesie, New York, Euclid Publishing Co., 1948; Peccato e luce (pref. di Cesare Foligno), New York, The Venetian Press, 1949; M’ascolti tu mia terra? Ode al Gargano, Foggia, Tip. Cappetta, s.d. [ma 1955]; Lo speco celeste, Siracusa-Milano, Ciranna, 1956; Odi sacre (pref. di Alfredo Galletti), Siracusa-Milano, Ciranna, 1957; Il ritorno. Liriche italiane (pref. di Pietro Magno), Fasano, Schena, 1992.
Un’esauriente, accuratissima rassegna bibliografica delle opere latine, inglesi e dialettali, della saggistica dell’Autore, nonché della bibliografia critica, che riprende e corregge repertorî precedenti, è in: COSMA SIANI, (a cura di), Two languages, two lands. L’opera letteraria di Joseph Tusiani (Atti della giornata di studî. San Marco in Lamis, 15 maggio 1999), San Marco In Lamis, Quaderni del Sud, 2000. Inoltre: Id, L’io diviso. Joseph Tusiani fra emigrazione e letteratura, Roma, Cofine, 1999. EMILIO BANDIERA, dell’Università di Lecce, attento esegeta delle poesie neo-latine dell’autore sammarchese, cura un sito web ricco di informazioni periodicamente aggiornate: , oppure: . All’autore è stato dedicato un altro importante convegno internazionale: PAOLO GIORDANO, (a cura di), Joseph Tusiani Poet Translator Humanist. An International Homage, West Lafayette (IN), Bordighera, 1994, con bibliografia alle pagg. 41-52. Un’opera collettiva, promossa dal Consorzio per l’Università di Capitanata, in collaborazione col “Centro Studî Diomede” di Castelluccio Dei Sauri, e che ha visto coinvolti i principali esperti della produzione tusianea è stata pubblicata nel 2004: AA.VV., Joseph Tusiani. Italiano in America. Studî per l’ottantesimo compleanno, Foggia, Leone Editrice.
Fra le interviste: ANTONIO MOTTA (a cura di), L’infanzia, la giovinezza, l'America, il dialetto, il presente. Conversazioni con Antonio Motta, San Marco in Lamis, Quaderni del Sud, 1999. Sull’importante attività di traduttore, dall’inglese e dall’italiano, ci limitiamo ad indicare: LUCIA PETRACCO SOVRAN, Joseph Tusiani poeta e traduttore, tesi di laurea, Università di Perugia, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di laurea in Lettere, a.a. 1977-78, poi pubblicata (Perugia, Sigla Tre, 1984) con presentazione di Pasquale Tuscano, varie traduzioni dell’autrice, informazioni di prima mano e molti riferimenti bibliografici.
È uscita di recente l’opera omnia di Tusiani in dialetto garganico, con l’attenta curatela di Antonio Motta, Anna Siani e Cosma Siani: JOSEPH TUSIANI, Storie dal Gargano, San Marco In Lamis, Quaderni del Sud, 2006.
The Complete Poems of Michelangelo, Transl. Into Verse with notes & intr. By Joseph Tusiani, New York, Noonday Press [nella «Unesco Collection of Representative Works. Italian Series», British Commonwealth edition: London, Peter Owen, 1961, rist. 1969, 1986; New York, Humanities Press, 1969]. Ma non è possibile dare conto in questa sede delle innumerevoli traduzioni di opere che abbracciano l’intero arco della letteratura italiana dal Duecento al Novecento, per cui si rimanda alla bibliografia ad esse relativa (in COSMA SIANI, Two languages…, cit., pp. 163-165.) ed al saggio: GAETANO CIPOLLA, Tusiani traduttore, in COSMA SIANI, Two languages…, cit., pp. 51. Non senza qualche ragione, Cipolla, parla dell’Autore come di un «mostro della traduzione». Per avere un’idea di quanto abbiano spaziato le traduzioni tusianee nell’ambito della letteratura italiana d’ogni tempo si veda: From Marino to Marinetti. An Anthology of Forty Italian Poets, Transl. into English Verse and with an Intr. by Joseph Tusiani, New York, Baroque Press, 1974.
Torquato Tasso’s Jerusalem Delivered, Transl. into verse and with an intr. by Joseph Tusiani, Rutherford-Madison- Teaneck, Farleigh Dickinson UP, 1970
TORQUATO TASSO, Creation of the World. Transl. into English Verse with Intr. by Joseph Tusiani, Annot. Gaetano Cipolla, Binghamton (NY), Center for Medieval & Renaissance Studies.
Dante’s Lyric Poems, Translated into English Verse by Joseph Tusiani, Intr. and Notes by Giuseppe C. Di Scipio, New York, Legas, 1992.
LUIGI PULCI, Morgante, Transl. By Joseph Tusiani, Intr./Annot. Edoardo A. Lebano, Bloomington and Indianapolis (IN), UP, 1998.
V. infra.
CESARE FOLIGNO, Prefazione, in JOSEPH TUSIANI, Peccato e luce, cit.
SERGIO D’AMARO, cit., p. 32.
Così Cesare Foligno (loc. cit.), con una felice espressione che avrà grande fortuna nella critica successiva.
Naturalmente non escludiamo che il dantista Tusiani abbia avuto come riferimento i numerosi passi della Commedia aventi contenuto teologico e filosofico.
Carducci, insieme a Pascoli e a D’Annunzio che un Tusiani giovanissimo volle conoscere di persona, sono stati fra primi punti di riferimento del poeta.
Non ci sono ignote, naturalmente, certe poesie dell’ultimo Montale che vanno in questa direzione, come, ad esempio, la bellissima Lettera levantina; o, in ambito meridionale e cattolico, l’esperienza poetica di Girolamo Comi.
ERICH AUERBACH, Studi su Dante, Milano, Feltrinelli, 1963, pp. 214-226.
V. supra.
ERICH AUERBACH, cit.
Così MICHELE DELL’AQUILA, Parnaso di Puglia nel ‘900, Bari, Adda, 1983, pp. 279-280.
In provincia di Foggia. La definizione è di MICHELE DELL’AQUILA, loc. cit.
In particolare, proprio Antonio Motta instaurerà un sodalizio umano ed intellettuale con lo scrittore di Racalmuto, dal quale scaturiranno una serie di scritti tra il saggio critico e la memorialistica: Leonardo Sciascia: la verità, l’aspra verità (Manduria, Lacaita, 1985), Il sereno pessimista. Omaggio a Leonardo Sciascia (1991), Un’amicizia. Conversazione su Sciascia (insieme a Bruno Caruso), Giorni felici con Leonardo Sciascia (Bellinzona, Casagrande, 2004). Motta è fondatore e presidente del “Centro Documentazione Leonardo Sciascia - Ar¬chivi Del Novecento”. Il Centro conserva la memoria degli scrittori del Novecento. Del solo Leonardo Sciascia sono custoditi oltre 1200 volu¬mi, edizioni rare e fuori commercio, prime edizioni, lettere, riviste, foto¬grafie, prove di stampa, incisioni, disegni e pastelli riferibili alla sua ope¬ra. 1 fondi più notevoli (che formano nell’insieme una biblioteca di 10.000 titoli novecenteschi) riguardano: Gesualdo Bufalino, Giuseppe Cassieri, Tonino Guerra, Alda Merini, Gina Lagorio, Anna Maria Orte¬se, Albino Pierro, Roberto Roversi, Saverio Strati, Joseph Tusiani. Nell’archivio si conservano 5.000 lettere autografe.
FRANCESCO PAOLO BORAZIO, Lu trajone: poemetto eroicomico in vernacolo garganico, a c. di MICHELE COCO, ANTONIO MOTTA e COSMA SIANI ; saggio introduttivo di F. SABATINI; illustrazioni di FILIPPO PIRRO, San Marco in Lamis, Quaderni del Sud, 1977.
ANTONIO SALVATO, A pietra e a pane : autobiografia di un bracciante pugliese, a c. di SERGIO D’AMARO, ANTONIO MOTTA, COSMA SIANI, prefazione di NINO CASIGLIO, San Marco in Lamis, Quaderni del Sud, 1979.
TOMMASO LA CECILIA, A caccia di briganti in terra di Puglia, a c. di TOMMASO NARDELLA ; con un saggio di RAFFAELE COLAPIETRA; prefazione di LEONARDO SCIASCIA, San Marco in Lamis – Manduria, Quaderni del Sud - Lacaita.
I singoli autori avevano già pubblicato alcune raccolte: Mani legate, di ANTONIO MOTTA (Padova, Rebellato) è del 1971, Ciclo chiuso (Poggibonsi, Lalli), di COSMA SIANI è del 1972; ragioni di spazio non ci consentono un esame approfondito dell’opera di Michele Coco e Sergio D’Amaro, autori di grande interesse, ma non compresi nella presente antologia. Ci ripromettiamo una più esauriente ricognizione bibliografica in una prossima pubblicazione.
AA.VV., Mitolatrie, Padova, Rebellato, 1974.
Su Cosma Siani, si vedano MICHELE COCO, Il poeta non inventa ex nihilo. “Ciclo chiuso”, raccolta di Cosma Siani poeta colto, in “Il Progresso dauno”, 28/X/1972, p. 3; ROMANO ROMANI, Ciclo chiuso (recensione), in “Galleria”, XXVI, 1-2, 1976, p. 76; LUIGI FONTANELLA, Poeti del nuovo Meridione: Cosma Siani, in “Rapporti”, XXVI-XXVII, 1982, pp. 37-28; MICHELE DELL’AQUILA, cit.; GIUSEPPE ZAGARRIO, Febbre, furore e fiele. Repertorio della poesia italiana contemporanea 1970-1980, Milano, Mursia, 1983, p. 316; DANTE MAFFIA, Poeti italiani verso il nuovo millennio, Roma, Edizioni Scettro del re, 2002, p. 202; SERGIO D’AMARO, Siani tra flashes e voci, in “Il libro”, Roma, II, 1, p. 30.
MICHELE DELL’AQUILA, cit., p. 279.
LUIGI FONTANELLA, cit.
Si tratta di 12 dicembre 1969: «a quanti chiedevano / il loro nome / rispondevamo inutili parole, / altro non sapevamo donare / che la pochezza di noi stessi».
GIUSEPPE ZAGARRIO, cit.
LUIGI FONTANELLA, cit.
WALTER BENJAMIN, Il Surrealismo [1929], in Avanguardia e rivoluzione. Saggi sulla letteratura, (tr.it. di Anna Marietti, con nota introduttiva di Cesare Cases), Torino, Einaudi, 1973, p. 23.
PAOLO ZUBLENA, cit.
Tra le principali raccolte poetiche di Motta, oltre alle già citate Mani legate, e Napalm: Lettere dall’al di qua e altri versi, Roma, Gabrieli, 1974; Da questa rovina risplendente (prefazione di ROBERTO ROVERSI), in “L’Albero”, Lecce, XXVIII, 59, 1978, pp. 175-183; Stanze della primavera, in AA.VV., Mitoclastìe, San Marco In Lamis, Quaderni del Sud, 1978; Quante leghe, Manduria, Lacaita, 1989.
Letteratura critica su Antonio Motta, poeta: COSMA SIANI, Le immagini del Sud, “La Stampa di Puglia”; 2/X/1974; CRISTANZIANO SERRICCHIO, Lettere dall’al di qua di Antonio Motta (recensione), “La gazzetta di Foggia”, 17/V/1974; MICHELE COCO, Un poeta meridionale: Antonio Motta, in “Il progresso dauno”, 19-26/X/1974; ENZO MAIZZA, Poesie dal Sud, in “Il giornale di Brescia”, s.d. [ma 1974]; SERGIO D’AMARO, Dialogo con la madre (recensione a Da questa rovina risplendente, cit.) UMBERTO MARVARDI, Introduzione a Poesie, Lettere …, cit.; ROBERTO ROVERSI, Postfazione a Quante leghe, cit., pp. 33-38; GESUALDO BUFALINO, Nota a Quante Leghe, loc. cit.
ROBERTO ROVERSI, cit.
MICHELE COCO, cit.
Sull’autrice foggiana si veda l’esauriente antologia critica curata da ANTONIO RICCI, Maria Marcone e la critica, 3 voll., Bari, Levante editori, 1995 – 1999 – 2005.
ROMANO LUPERINI, La fine del Postmoderno.



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