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Effetto Placebo e Nocebo: meccanismi misteriosi ancora sconosciuti

L’effetto placebo, è il risultato dalla somministrazione di un farmaco placebo, e rappresenta l’esito terapeutico osservabile in chi ha assunto tale terapia.

FotoIn medicina, il placebo è una sostanza non pericolosa, innocua, neutra, che non possiede alcuna controindicazione se usata a scopi terapeutici. Può essere somministrato sotto forma di pillola o di liquido. In ogni caso, risulta privo di ogni principio farmacologico o chimico attivo e quindi non presenta alcuna efficacia terapeutica.

Il placebo è noto nell’ambito delle scienze naturali fin dal Settecento, ed è stato definito attraverso il futuro del verbo latino placere, placebo, che significa letteralmente piacerò, mi piacerà la terapia assunta. Di fatto, il placebo è il più antico ed efficace trattamento terapeutico conosciuto dall’uomo.

Studi in cieco (dove il paziente non sa cosa sta prendendo) o in doppio cieco (sia il paziente che il medico che somministra non sono a conoscenza di cosa si somministra) hanno evidenziato risultati terapeutici migliori in pazienti trattati col placebo rispetto a coloro che hanno assunti farmaci normali.

L’effetto placebo, è il risultato dalla somministrazione di un farmaco placebo, e rappresenta l’esito terapeutico osservabile in chi ha assunto tale terapia. Solitamente, in chi lo prende si ottengono dei miglioramenti sia da un punto di vista organico sia psicologico. Tale miglioramento è sicuramente determinato dall’atteggiamento positivo mostrato dal paziente nei confronti della cura, perché prefigura una migliore e più repentina guarigione. Risultati eclatanti si ottengono anche attraverso la chirurgia placebo, in cui, ad esempio, una semplice incisione induce effetti benefici su una malattia più importante presentata.

In generale, l’effetto placebo si verifica quando la persona si mostra positiva nei confronti del farmaco assunto e propenso a guarire. Manifesta, dunque, maggiore positività a propensione al cambiamento in termini di miglioramento del proprio stato di benessere.

A parità di trattamenti placebo si ottengono esiti terapeutici migliori quando il medico mostra atteggiamenti più empatici e accoglienti nei confronti del paziente. Questo atteggiamento positivo consente a chi riceve la cura di sentirsi più riconosciuto, e più ascoltato. Per questo, implementa la fiducia e le aspettative positive rispetto ai benefici del trattamento stesso.

Tutto questo evidenzia che il ricevere maggiori attenzioni terapeutiche innesca una forma di autosuggestione che si traduce in un effettivo e reale miglioramento per il soggetto malato. Tale effetto porterebbe a una maggiore produzione di endorfine, analgesici endogeni naturali, ormoni del buon umore, prodotti dall’organismo umano, derivanti dalla convinzione di riuscire a guarire con molta probabilità.

Chiaramente, un giudizio o un atteggiamento negativo da parte del medico o dello sperimentatore può indurre anche un effetto negativo sugli esiti della cura definito nocebo, in cui le aspettative negative producono un peggioramento del quadro clinico. L’effetto nocebo è riscontrabile anche nelle sperimentazioni cliniche in cui i partecipanti palesano gli stessi effetti collaterali che si verificherebbero tramite l’assunzione del vero farmaco. Questo succede perché è stato loro comunicato che la sostanza assunta potrebbe provocare degli effetti nocivi, di conseguenza le aspettative calano e la preoccupazione di non guarire aumenta.

Una ricerca pubblicata sulla rivista Nature Communications(1) dai neurologi della Dartmouth University di Hanover (Stati Uniti) e di alcune università europee, aderenti al Placebo Imaging Consortium, porta elementi nuovi sul modo, complesso, in cui il cervello gestisce ed elabora il dolore. Studiati 600 pazienti.Quanto è reale l’effetto placebo, che si ottiene somministrando farmaci inerti (a volte, solo pillole di zucchero) al posto di quelli veri, senza che il paziente lo sappia (soprattutto durante le sperimentazioni di nuove terapie), ottenendo comunque un effetto positivo e tangibile, a volte addirittura superiore a quello dei medicinali reali? Da lungo tempo si sa che la potenza dell’autosuggestione può essere molto forte, ma i meccanismi cerebrali che portano a questi risultati non erano stati svelati nei dettagli.

COINVOLTE DIVERSE AREE CEREBRALI
I ricercatori hanno messo insieme (in quella che viene definita metanalisi) i dati di 20 studi relativi a oltre 600 persone, per capire con maggiore precisione, grazie a tecniche avanzate di imaging (risonanza magnetica funzionale e altre), che cosa succede nel cervello, quando si pensa di essere sotto l’effetto di una terapia antidolorifica. I test effettuati nell’ambito dei 20 studi hanno portato a capire alcuni aspetti significativi. Innanzitutto, si è visto che vengono coinvolte diverse aree cerebrali, con l’attivazione di un gran numero di neuroni. In particolare, interviene il talamo, che è un’importante porta d’ingresso per gli stimoli sensoriali. Gli studiosi hanno dimostrato che lo stimolo doloroso viene poi elaborato da altre zone del cervello, in modi che differiscono da persona a persona, in una sorta di costruzione mentale, molto variabile. L’effetto placebo interviene su questo sistema dolore, riducendo l’attività delle aree coinvolte nella segnalazione precoce del dolore stesso e/o nella sua elaborazione, compreso il ricordo di dolori precedenti.

D’altronde, sono numerose le testimonianze che vanno in tale direzione. Si è visto, per esempio, nell’ambito di altri studi, che la somministrazione di una pillola antidolorifica di colore rosso e di grosse dimensioni produce mediamente più effetto di una pillola piccola, dai colori sbiaditi, perché viene ritenuta inconsciamente più efficace (evidentemente una pillola più appariscente riduce in partenza gli stimoli nervosi del “sistema dolore”). Allo stesso modo, a parità di morfina somministrata a pazienti oncologici, i risultati sono più efficaci se il medico o l’infermiere avvertono il malato, preannunciandogli l’arrivo del farmaco.

«Dobbiamo chiarire ancora molti aspetti legati a come il cervello costruisce le esperienze dolorose – conferma Tor Wager, coautore dello studio pubblicato da Nature Communications – Sicuramente interviene un mix di aree cerebrali, che in parte elaborano gli input provenienti dal corpo e in parte sono coinvolte nella motivazione e nel processo decisionale».

UNA GRANDE VARIABILITÀ
La domanda, pensando all’effetto placebo, è, a questo punto: il farmaco ritenuto antidolorifico, anche se non lo è (o, comunque, il farmaco ritenuto più efficace), modifica il modo in cui arrivano gli stimoli al cervello, o il modo in cui questi stimoli vengono elaborati? Dai dati delle risonanze, la risposta che emerge è: probabilmente entrambi, perché di volta in volta ci sono attivazioni di più aree riferibili ai due tipi di effetti. Quale sia la parte dominante dipende molto dal contesto, dalla predisposizione del singolo, dal tipo di esperienza, e così via. Tutto ciò conferma quanto l’effetto placebo sia reale e complesso, e soprattutto lascia intravvedere nuovi spunti per possibili applicazioni sia in ambito terapeutico sia, ad esempio, per quanto riguarda le anestesie negli interventi chirurgici.

IL COSIDDETTO EFFETTO PLACEBO FUNZIONA, MA ANCORA SE NE IGNORA IL PERCHÉ
La Germania ha stanziato negli ultimi anni 5 milioni e 200 mila euro a un’équipe di medici dell’Uniklinik di Essen per studiare l’effetto placebo e il suo utilizzo negli spazi ospedalieri. I risultati sono sorprendenti e le scienze neurologiche si stanno sempre più orientando allo studio dell’interazione corpo-mente. Gli studi finanziati così lautamente hanno dimostrato che l’effetto placebo provocato da un medico attento ai sintomi e ai bisogni del paziente ha un’incidenza sulla buona riuscita di una terapia di almeno un 30% in più.

Perfino la morfina iniettata assieme alle parole ”Adesso il dolore passerà” ha un effetto superiore del 30% rispetto alla stessa dose inoculata in silenzio. In Italia il libro di Fabrizio Benedetti L’effetto placebo. Breve viaggio tra mente e corpo, sempre più citato negli articoli di medicina, è un trattato scientifico in cui un neurologo spiega questo “fenomeno biologico che avviene nel cervello del paziente e che ci fa capire come funziona la nostra mente, e come elementi mentali complessi sono in grado di influenzare il nostro corpo”, affermando che “l’effetto placebo è dunque una finestra sull’interazione mente-cervello-corpo”.

In realtà con le parole effetto placebo definiamo un meccanismo ancora sconosciuto che provoca negli uomini e nelle donne la guarigione dalla malattia.

SE ALLORA LE MEDICINE COMPLEMENTARI SONO CAPACI DI SCATENARE L’EFFETTO PLACEBO, PERCHÉ LA MEDICINA MODERNA LE DISPREZZA E LE OSTEGGIA?
Questo pregiudizio presto crollerà come sta crollando la stupida idea che il cibo non abbia alcuna influenza sulla salute delle persone. Sempre meno oncologi dicono ai pazienti “Mangi quello che vuole”.
Gli studi del professor Franco Berrino dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano dimostrano che una sana alimentazione incide, e non poco, sulle recidive del cancro, e che zuccheri e farina bianca sono veri e propri veleni spesso causa delle più comuni malattie. Il fatto è che la medicina, come tanti campi dello scibile umano, è potere concentrato nelle mani di pochi che ne sfruttano i vantaggi economici, a discapito dei molti, e questi pochi non ammettono che si eroda il loro monopolio nonostante dissemini morti e sofferenze inaudite. In questi anni molte cose sono cambiate, sono stati aperti reparti di medicina complementare in alcuni ospedali, per esempio in settentrione a Merano e in centro Italia a Pitigliano. L’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano ha ufficializzato il gruppo Me.Te.C.O. − acronimo di Medicine e Terapie Complementari in Oncologia − che organizza congressi di medicina non convenzionale nella storica sede di via Venezian a Milano, anche se i medici che ne fanno parte non possono esercitare all’interno della struttura.

È un passo avanti, piccolo ma significativo.

IL SIGNIFICATO DELLA PAROLA PLACEBO HA ALLE SPALLE UNA STORIA BIZZARRA, CHE VALE LA PENA ESSERE RIPORTATA

Placebo è l’indicativo futuro del verbo latino “placere” – dunque significherebbe letteralmente “io piacerò”. Pare che nell’atto di traduzione della Bibbia dall’ebraico al latino, San Girolamo scrisse “Placebo Domino in regione vivorum” – ossia “Piacerò a Dio nella regione dei viventi” – anziché “Camminerò alla presenza del Signore sulla terra dei viventi” – versione corretta presente nella Bibbia attuale (libro dei Salmi). E fin qui si tratterebbe di un semplice errore di traduzione – peraltro senza alcuna accezione negativa per il termine placebo.

Nel Medioevo, tuttavia, si diffuse in Inghilterra l’usanza di cantare quel versetto ai funerali da parte dei cosiddetti “professionisti del pianto”, ossia persone che venivano appositamente ingaggiate per amplificare l’impatto emotivo della celebrazione. Ebbene, pare che la prima parola del versetto cantato da costoro, ossia proprio il termine “placebo”, iniziò ad essere utilizzato per definire comportamenti falsi e insinceri – come testimonia anche un racconto dei famosi Canterbury Tales di Geoffrey Chaucer (Il racconto del mercante).

Il termine placebo compare per la prima volta nella sua accezione contemporanea all’interno del New Medical Dictionary del 1785, ove viene definito come una medicina dozzinale, grossolana. Bisogna attendere la fine dell’Ottocento perché il termine assuma il significato con cui lo utilizziamo ancora noi oggi, ossia di sostanza inerte, non farmacologicamente attiva (Foster Dictionary, 1894).

Secondo l’opinione di molti studiosi la storia della medicina sarebbe in buona parte storia dell’effetto placebo: molti rimedi del passato – come il salasso, l’uso dell’arsenico per le ferite, l’uso di veleno di serpente – in seguito rivelatisi privi di valenza scientifica, producevano tuttavia risultati. Il paziente, convinto dell’efficacia del trattamento, otteneva effetti positivi, manifestando – di fatto – ciò che oggi chiamiamo effetto placebo.

La storia del placebo è strettamente legata al nome di un medico inglese del XVIII secolo, Elisha Perkins, che sosteneva che molte malattie (reumatismi, gotta, infiammazioni, patologie cutanee, dolori e persino convulsioni e crisi epilettiche) potessero essere curate passando sul corpo del paziente delle bacchette di metallo – che presero poi il nome di “bacchette di Perkins” (o “Perkins’ Tractors”). Il principio su cui si basava il trattamento era il presunto magnetismo delle bacchette, in grado di esercitare azione terapeutica e indurre il corpo alla guarigione. Per inciso Perkins non aveva intenti fraudolenti, il suo desiderio era trovare un rimedio economico ed efficace per poter curare gratuitamente le fasce meno abbienti della popolazione.

Interessato agli studi di Perkins, un altro medico inglese suo contemporaneo, John Haygarth (epidemiologo e reumatologo), allestì quello che viene considerato a tutti gli effetti il primo esperimento a confronto con placebo della storia della medicina: Haygarth confrontò l’effetto delle bacchette di Perkins con quello di bacchette simili ma realizzate in legno – e dunque per loro natura prive di qualsiasi effetto magnetico.

I risultati che ottenne furono del tutto analoghi a quelli ottenuti con le bacchette di metallo – il che portò Haygarth a concludere che l’effetto Perkins fosse mera suggestione. Il medico tuttavia non utilizzò questi risultati per denigrare il lavoro del collega, anzi: si interessò ancora di più al fenomeno, intuendone le potenzialità in ambito terapeutico e aprendo la strada all’utilizzo del placebo come rimedio per migliorare le condizioni del paziente, laddove, per esempio, non fosse possibile l’utilizzo di farmaci.

Un secolo dopo, nel 1939, il medico italiano Davide Fieschi mise a punto un nuovo metodo di trattamento per l’angina pectoris: basandosi sull’osservazione per cui l’aumento del flusso di sangue al cuore poteva ridurre il dolore al petto (sintomo tipico dell’angina, dovuto a insufficiente ossigenazione a livello cardiaco), iniziò a trattare i pazienti effettuando, tramite piccole incisioni sul petto, la doppia legatura delle arterie mammarie. Questa legatura, nelle intenzioni di Fieschi, avrebbe provocato una “deviazione” del flusso sanguigno verso il pericardio (la membrana che riveste il cuore), aumentando di conseguenza l’apporto di sangue e di ossigeno al cuore. Questo intervento divenne una procedura standard per il trattamento dell’angina pectoris durante i successivi 20 anni, finché nel 1959 il cardiologo Leonard Cobb condusse un esperimento per valutare l’effettiva efficacia del trattamento Fieschi, con risultati a dir poco inaspettati. Cobb divise 17 pazienti in attesa di trattamento chirurgico in due gruppi: uno fu trattato con la procedura standard, mentre all’altro furono praticate solo le incisioni, senza la legatura delle arterie mammarie. Ebbene, nei pazienti non operati si verificò la stessa riduzione del dolore e lo stesso miglioramento delle alterazioni cardiache riscontrati nel gruppo operato.

Questo esperimento rappresentò a tutti gli effetti la prima dimostrazione del fatto che l’effetto placebo potesse funzionare anche in ambito chirurgico.

Risultato analogo fu ottenuto nello stesso anno da un altro chirurgo, Bruce Moseley, che applicò l’effetto placebo alla chirurgia del ginocchio. Egli divise 180 pazienti con osteoartrite al ginocchio, sottoposti a intervento chirurgico, in tre gruppi: al primo fu praticata la rimozione della cartilagine danneggiata, al secondo gruppo venne effettuato un lavaggio con soluzione salina per rallentare la degenerazione della cartilagine, al terzo fu simulato l’intervento, senza tuttavia fare nulla. Tutti i pazienti furono poi sottoposti allo stesso trattamento riabilitativo e i risultati, di nuovo, furono sorprendenti: il gruppo che aveva subito l’intervento placebo mostrava gli stessi miglioramenti degli altri due gruppi, in termini di elasticità di movimento e deambulazione, per i due anni successivi all’intervento.

Parallelamente a questi risultati incredibili, cominciò tuttavia ad emergere un problema tutt’altro che secondario, che riguardava la sfera etica della questione: è lecito privare consapevolmente un paziente di un trattamento efficace solo per verificare un presunto effetto placebo? Cosa sarebbe accaduto, per esempio, se i pazienti affetti da angina pectoris fossero peggiorati a seguito del mancato intervento chirurgico?

Lo stesso dilemma etico si pone oggi, negli studi clinici condotti a confronto con placebo. L’importanza dell’effetto placebo in ambito diagnostico fu oggetto di uno studio pubblicato nel 1987, in cui furono reclutati 200 pazienti con generici e non correttamente diagnosticati problemi di salute. I partecipanti furono divisi in due gruppi: al primo fu detto che non era chiara la ragione del loro malessere e non era possibile formulare una diagnosi precisa, mentre al secondo gruppo fu comunicata chiaramente l’origine del problema e l’elevata probabilità evoluzione positiva dei sintomi dopo il trattamento proposto. Ebbene, dopo solo due settimane di cura, il 64% dei pazienti del secondo gruppo manifestava segni di miglioramento, a fronte del solo 39% degli appartenenti al primo gruppo.

Numerosi test seguirono quelli appena descritti, permettendo di approfondire sempre meglio gli effetti del trattamento placebo e l’evidente correlazione tra attitudine positiva del paziente e risultato della terapia: proprio in ragione del coinvolgimento emotivo e mentale della persona, l’ambito clinico in cui fu maggiormente approfondito e applicato l’effetto placebo fu senza dubbio quello psichiatrico.

In conclusione, come disse Norman Cousins, giornalista e scrittore americano, i farmaci non sono sempre necessari alla guarigione, ma credere nella guarigione lo è. L’insegnamento dell’effetto placebo ci dimostra come la nostra mente possa guidare il nostro organismo e la sua reattività.

FONTI:
• https://www.stateofmind.it/placebo-effetto-placebo/
• https://healthy.thewom.it/divulgazione/effetto-placebo/
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