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Comunicato Stampa

Il dilemma dell’Amazzonia: capitalismo estremo, protezionismo o decrescita eco-sostenibile?

08/07/12

In Amazzonia vengono portati a termine faraonici progetti di sfruttamento senza interpellare le comunità native seguendo una politica estrattivista con il beneplacito dei governi sudamericani.

Il bacino del Rio delle Amazzoni, esteso ben 7 milioni di chilometri quadrati (23 volte l’Italia), è la conca idrografica più estesa del pianeta.
Il Rio delle Amazzoni, fiume dei record per eccellenza (in lunghezza, con ben 6992 chilometri, e in portata d’acqua, circa 300.000 metri cubi al secondo all’estuario), convoglia le acque di ben 10.000 fiumi, tra i quali 20 grandi affluenti, ciascuno più lungo di 1000 chilometri.
La conca amazzonica è politicamente divisa tra 6 Stati sovrani: Brasile (64% dell’intera area), Perú, Bolivia, Colombia, Ecuador e Venezuela.
All’interno del grande bacino vi è compreso l’ecosistema amazzonico, ovvero l’insieme dei biomi di: selva alta, foresta pluviale tropicale e prateria amazzonica. L’estensione di questo particolare e delicato ecosistema è di circa 5 milioni di chilometri quadrati dove vivono all’incirca 30 milioni di persone (23 milioni solo nell’Amazzonia brasiliana).
L’Amazzonia, fin dall’inizio della colonizzazione europea (fondazione di Santa Cruz, 1561, da parte degli Spagnoli, e di Belem, 1616, da parte dei Portoghesi), è stata considerata dai rispettivi Stati sovrani che ne possedevano altrettante porzioni, come una terra da sfruttare allo scopo di estrarre risorse da vendere in seguito sul mercato internazionale.
Come ho descritto nel mio articolo Storia della colonizzazione europea dell’Amazzonia, quest’enorme territorio è stato sfruttato inizialmente per la produzione di caffè, cacao, cotone e tabacco. In seguito, sul finire del XIX secolo, il motore dello sfruttamento intensivo dell’Amazzonia e dei suoi indigeni (vedi il caso Arana), è stata la domanda mondiale di gomma (caucciù).
Nel XX secolo è continuata l’espansione di capitalisti e proprietari terrieri che hanno utilizzato i suoli per arricchirsi a dismisura, senza considerare le esigenze di uno sviluppo armonico e sostenibile.
E’ il caso della deforestazione massiva causata dai grandi produttori di soia e dei grandi allevatori in Brasile, che in alcuni casi hanno controllato interi Stati, come per esempio il Mato Grosso.
In altri casi, enormi porzioni d’Amazzonia sono state consegnate a compagnie petrolifere statunitensi, come nel caso della Chevron Texaco (vedi mio articolo: Amazzonia: la nuova frontiera dello sfruttamento petrolifero mondiale)
Oggi, nel XXI secolo, il Paese dominante del Sud America è il Brasile, ed ad esso è riconducibile ogni decisione economico-politica che riguarda l’ecosistema amazzonico nella sua totalità.
Il Brasile, ormai la sesta potenza mondiale (prodotto interno lordo a prezzi nominali), sta investendo in faraonici progetti infrastrutturali che stanno cambiando la faccia all’Amazzonia, con particolari rischi per l’ecosistema e gli indigeni che vi vivono.
E’ il caso per esempio della diga di Inambari in Perù, delle due dighe sul gigantesco Rio Madeira, della diga di Belomonte sul Rio Xingù, impianti che si costruiranno non tanto per fornire l’Amazzonia di elettricità a basso costo, ma per alimentare le imprese del ricco sud del Brasile (San Paolo e stati limitrofi).
Altri faraonici progetti, come la Rodovia transamazzonica (BR-230), che dovrebbe tagliare la foresta trasversalmente per collegare il nord-est del Brasile con Benjamin Constant (la frontiera con Perù e Colombia), in modo da trovare poi uno sbocco verso l’Ecuador e quindi il l’Oceano Pacifico per i prodotti d’esportazione brasiliani, e la contestata strada del TIPNIS (Bolivia amazzonica), finanziata con capitali brasiliani, fanno dubitare se daranno un effettivo vantaggio alla popolazione che vive in Amazzonia o se saranno di utilità per grandi gruppi economici che esportano materie prime come biomasse, soia, o prodotti minerari.
Il problema dello sfruttamento sostenibile dell’Amazzonia è reale anche in Colombia.
L’Amazzonia colombiana occupa un territorio di 483.000 chilometri quadrati ed è percorsa da due grandi affluenti del Rio delle Amazzoni: il Rio Caquetà e il Rio Putumayo. Per un breve tratto (circa 100 chilometri), il Rio delle Amazzoni stesso scorre in terrirorio colombiano, da Puerto Nariño a Leticia (frontera col Perù).
L’economia degli abitanti della regione (meno di un milione), si basa sulla pesca, sull’agricoltura di sussistenza e sulla deforestazione.
Anche in questa porzione d’Amazzonia si stanno affacciando grandi gruppi economici che spesso non ascoltano i bisogni della popolazione locale. Vi sono alcuni gruppi petroliferi stranieri e nazionali che operano nei dipartimenti del Putumayo e Caquetá. Vi sono poi varie attività estrattive sia d’oro che di altri minerali rari come lo strategico coltan, (dipartimenti di Vaupes e Guainia), che causano spesso problemi di inquinamento dei fiumi con conseguenti traumi per le popolazioni locali e indigene.
Nell’Amazzonia colombiana inoltre vi è un problema in più rispetto agli altri Stati dell’area: grandi zone di terra vergine sono purtroppo sotto il controllo di gruppi armati illegali che sfruttano i suoli sia per la produzione di foglie di coca e la conseguente commercializzazione di cocaina, sia per attività minerarie illegali e fortemente inquinanti.
Tutto ciò causa danni irreparabili all’ecosistema amazzonico e agli indigeni e coloni, costretti a vivere spesso ai margini di vere e proprie guerre non dichiarate.
Il quadro globale che risulta da questa analisi è un’Amazzonia ferita, a volte da gruppi economici legali, ma che hanno come obiettivo solo ed esclusivamente il lucro, senza ascoltare le richieste delle popolazioni autoctone, altre volte da gruppi di potere occulto ed illegale che perseguono fini di lucro calpestando ancor di più i bisogni e le esigenze delle popolazioni locali.
Nei centri politici ed economici degli Stati sudamericani che posseggono parti di Amazzonia questi problemi non sono visti come prioritari.
A Bogotà, per esempio, ma anche a Lima o a San Paolo, l’Amazzonia appare lontana, e i suoi problemi sono visti come secondari rispetto ai normali problemi di uno Stato: disoccupazione, povertà, insicurezza.
Ogni tanto si legge nei giornali locali che la deforestazione continua e che la biodiversità è minacciata, però nessuno comprende realmente la magnitudine del problema “Amazzonia”. Pochi inoltre si rendono conto che se si potesse sviluppare un’economia sostenibile in Amazzonia, si potrebbero ridurre o forse addirittura eliminare molti problemi che affliggono gli Stati sudamericani.
Se s’iniziasse a creare un dibattito intergovernativo tra i sei Stati amazzonici sudamericani, si potrebbe giungere a conclusioni importanti. In primo luogo per far conoscere la realtà amazzonica ai cittadini degli Stati in questione, che spesso la ignorano e sono facilmente indottrinati da false notizie, non facilmente verificabili.
In secondo luogo per dare delle indicazioni ai Governi, che a volte attuano delle politiche sbagliate.
Per esempio, dare in concessione immense aree per lo sfruttamento petrolifero, senza ascoltare il parere dei nativi (come nel caso di Bagua, in Perù), o tentare di costruire delle strade attraverso riserve ecologiche (come nel caso del TIPNIS), risulta estremamente dannoso per l’ambiente e la popolazione locale.
La mia opinione è che nemmeno con l’eccessivo protezionismo ambientalista e indigenista si può dare una risposta giusta al problema “Amazzonia”, abbiamo visto infatti che in Brasile la creazione di numerose ed enormi “terre indigene” non ha diminuito i conflitti interni ma al contrario li ha amplificati (vedi mio articolo sulla terra indigena Raposa Serra do Sol).
La soluzione potrebbe essere un’economia ecosostenibile, orientata a: incentivare le produzioni locali in un’ottica di decrescita, contingentare le esportazioni di prodotti grezzi (petrolio, carbone, minerali rari, soia, biomasse), che fino ad oggi sono servite solo al lucro di potenti gruppi industriali privati, (spesso esteri), e favorire una graduale redistribuzione di terre alle classi meno abbienti, insegnando loro le più avanzate tecniche di agricoltura biologica.



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